Recensione dei docufilm QUINDI ARRIVAMMO A ROMA La seconda nascita della città eterna e IN QUEI GIORNI DIVENNE ETERNA Roma città degli opposti vangeli

Cosa rende divino l’umano e l’umano divino?

In che modo l’eternità plasma la storia?

Qual è il legame quasi inafferrabile, e insieme carnale,

che fa di Roma quel teatro dove l’eternità va in scena ? 

Forniscono un’interessante risposta a queste domande i due docufilm ideati dal Vicariato di Roma e interpretati dal raffinato carisma di Andrea Lonardo: il personaggio principale che, un po’ come il Virgilio dantesco, ci guida in due affascinanti percorsi – quelli proposti dai due docufilm appunto – alla scoperta dell’intimo legame tra la cultura pagana e quella cristiana. Culture originanti la città prescelta per divenire eterna: Roma.

Andrea Lonardo

Nel primo docufilm Quindi arrivammo a Roma. La seconda nascita della città eterna” (diffuso sul canale YouTube di Romartecultura dal Luglio del 2022) la narrazione si incentra intorno alla risonanza che ebbe, nella Roma decadente del periodo ellenistico, l’arrivo delle figure cristiane di Pietro e Paolo. Ad impreziosire l’originale percorso narrativo, contributi esterni di personaggi autorevoli, quali Giovanni Maria Flik (Presidente emerito della Corte Costituzionale); l’attore e regista Carlo Verdone e Alfonsina Russo (Direttrice del Parco archeologico del Colosseo).

Andrea Lonardo

Nel secondo docufilm “In quei giorni divenne eterna. Roma città degli opposti vangeli” (diffuso sul canale YouTube di Romartecultura dal 20 luglio u.s.) la narrazione verte intorno all’incredibile eco che ebbe, nell’aurea Roma di Augusto e Tiberio, l’ambiguità legata ai termini “salvatore” e “vangeli”. Preziosa qui l’amichevole partecipazione di Amedeo Feniello dell’Università de L’Aquila.

Luca Nencetti, Giorgio Sales e Giuseppe Benvegna

Entrambi i docufilm sono il frutto dell’appassionata sinergia tra diverse forme espressive: quella del documentario, quella del film e quella del teatro. Infatti, agli splendidi testi redatti da Andrea Lonardo (autore oltre che attore principale di entrambi i docufilm) si intrecciano sapientemente sia l’accuratissima regia cinematografica di Alessandro Galluzzi, che la regia teatrale e la direzione artistica, ricche in sensibilità, di Francesco d’Alfonso. La produzione è di Valerio Ciampicacigli per Ulalà Film

Ma ciò che li rende così unici, oltre all’elegante e certosina cura estetica – mai fine a se stessa ma sempre a servizio di un fine etico e divulgativo – è l’originalità dei contenuti sui quali gettano luce, portando alla ribalta quelle feconde interazioni dialettiche tra cultura pagana e cultura cristiana indispensabili per rileggere in modo originale la storia e la spiritualità di Roma. E non solo, perchè da esse ha preso avvio la stessa cultura occidentale.

Senza la lettera di San Paolo ai Romani, ad esempio, non ci sarebbero stati né Agostino, né Lutero, che si fecero portavoce della necessità di una salvezza che non dipende solo dall’uomo. Inoltre è dall’affermazione di Gesù “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” che nasce il principio della laicità : ogni vera religione deve rispettare la libertà dello Stato e ogni vera politica non ha il diritto di arrogarsi un potere assoluto, disgiunto dal bene .

La stessa scelta del titolo del primo docufilm “Quindi arrivammo a Roma” pur essendo una citazione da “Atti degli Apostoli” (28,11-16.30-31), non può non far risuonare nella mente e nel cuore dello spettatore quell’ “Allora uscimmo a rivedere le stelle” dantesco (c. XXXIV, v.139) presagio – lì come qui -di un nuovo cammino di luce e di speranza. 

In entrambi i docufilm la narrazione cinematografica del regista Alessandro Galluzzi tende a prediligere uno sguardo riflessivo, dove i piani sequenza e le riprese in soggettiva godono di uno status fondamentale, alimentando suggestioni poeticamente decadenti alla Paolo Sorrentino e momenti di suspence alla Alfred Hitchcock.

L’ io dello spettatore vede, infatti, con gli occhi del personaggio diegetico ed è proprio la forma del suo sguardo a condurlo nella forma linguistica della storia raccontata, punteggiata da panoramiche a schiaffo che ripropongono la necessaria naturalezza del battito delle palpebre dello sguardo. Non mancano gli spostamenti più poetici resi, soprattutto nelle scene di teatro, con assolvenze e dissolvenze, anche incrociate. Il tutto sempre con un effetto visivamente eloquente, tale da mantenere desta l’attenzione e alta la tensione emotiva.

Francesco d’Alfonso

Allo sguardo cinematografico si lega armonicamente la scelta dei tappeti musicali di entrambi i docufilm, curata abilmente da Francesco d’Alfonso, il quale si orienta opportunamente verso l’utilizzo di melodie prevalentemente eseguite con strumenti ad arco. Strumenti, e quindi mezzi, più adatti a veicolare proprio quella originalità – a volte “ruvida”, altre volte “lieve” – della narrazione e quindi della dialettica tra sacro e profano. Archi portatori di quell’appassionato rigore, che sa come muoversi e trovare un equilibrio tra spirito apollineo e spirito dionisiaco. 

Giorgio Sales

Ma allo sguardo cinematografico di Alessandro Galluzzi, Francesco d’Alfonso sa conciliare, oltre ai tappeti musicali più appropriati, anche un’accorta ed efficacissima regia teatrale, dove alla solenne staticità degli attori, resa vibrante da un’appassionata interpretazione vocale – sono tutti giovani professionisti diplomati all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico – si lega un mirabile uso caravaggesco della luce.

Luca Nencetti

Luce che sa essere sia divinamente epifanica ma insieme anche inquietantemente umana, riuscendo così a far affiorare anche quel “lato oscuro” connaturato all’essere umano. Quel lato che Socrate attribuiva all’ignoranza insita nell’uomo e che Paolo, con sguardo assai più moderno, rintracciava in quel tendere, tipico dell’essere umano, verso qualcosa a cui però, per natura, non riesce ad arrivare.

Giuseppe Benvegna

Splendido il ritmo che il regista Francesco d’Alfonso richiede ai suoi attori e che loro sanno come rendere: con quella leggerezza, di cui parlava Italo Calvino, che riesce ad accogliere anche il più profondo dei pathos.

Chiara Ferrara e Matilde Bernardi

La scena che rievoca la Passione delle due cristiane Perpetua e Felicita (nel primo docufilm ) ne è un seducente esempio: qui estasi mistica e ferina passionalità riescono a raggiungere un equilibrio che incanta.

Matilde Bernardi e Chiara Ferrara

Nel secondo docufilm, invece, il regista osa andare oltre arricchendo l’interpretazione richiesta agli attori con suggestioni coreografiche di sublime bellezza. Come quando sceglie di visualizzare l’ambiguità venutasi a creare su chi fosse il vero “salvatore”: l’Imperatore Augusto, che come tale si auto-appellava, o quel bambino nato in quegli stessi anni da una vergine in Galilea?

Matteo Santinelli e Marco Tè

La scelta registica di far interpretare questa scena (ricavata dal testo della “Ecogla IV” di Virgilio) a due attori uniti di spalle -quasi personificazione degli “opposti vangeli”- per poi disgiungerli, sembra alludere anche al mito platonico delle metà, raccontato per bocca di Aristofane nel “Simposio” di Platone.

Marco Tè e Matteo Santinelli

Una separazione fertile se finalizzata alla ricerca dell’altra metà (ovvero dell’altro “salvatore”) consapevoli che una coesistenza senza sopraffazione può essere possibile. Come fece il Tevere, accogliendo nel suo fluire i gemelli fondatori di Roma insieme a Pietro e Paolo, che in quel fiume battezzarono i primi cristiani della metropoli edificata da Romolo e Remo. Una resa scenica questa della “Ecogla IV” di Virgilio di un’efficacia estetica ed emotiva potentissima.

Un altro magnifico esempio di potenza coreografica lo si trova nella scena che fa rivivere un passo dell’iscrizione augustea di Priene: qui la scelta registica fa sì che all’attore sia chiesto di assumere una postura plastica che, nella sua naturale eleganza, ricorda moltissimo “Il Pensatore” di Rodin.

Giorgio Sales, Giada Primiano, Matteo Santinelli e Roberta Azzarone

E ancora, come non rimanere catturati dalla potenza espressiva degli attori nella scena ispirata a “La Salomè” di Oscar Wilde? Qui la tensione emotiva raggiunge picchi energeticamente sanguigni, macbethiani !

Roberta Azzarone e Matteo Santinelli

Roberta Azzarone, Giorgio Sales e Giada Primiano

Roberta Azzarone, Giada Primiano e Giorgio Sales

Matteo Santinelli

E infine, ne “Il Vangelo secondo Pilato” di Éric-Emmanuel Schmitt, ricca in acume è la scelta del regista d’Alfonso di vestire “il suo” Pilato in tailleur bianco: il colore che contiene tutti i colori, il colore che non sceglie. Come fece Pilato. E la luce va a cercarlo: illuminandolo in tutta la sua interezza.

Giorgio Sales

I docufilm sono stati ideati dal Vicariato di Roma e curati dall’Ufficio per la pastorale universitaria e dall’Ufficio per la pastorale del tempo libero, del turismo e dello sport. In redazione Annalisa Maria Ceravolo, Claudio Tanturri e don Francesco Indelicato, direttore dell’Ufficio per la pastorale del tempo libero, del turismo e dello sport.

Andrea Lonardo

Il format dei due docufilm è pensato per quanti vivono quotidianamente la città e il centro storico, in particolar modo per gli studenti delle università romane, oltre che per pellegrini, turisti e guide turistiche.

Ma soprattutto i due docufilm nascono dall’esigenza di offrire a chiunque la possibilità di avere “chiari gli occhi e luminosa la mente per veder la meraviglia”. Quella lasciata da due magnifiche eredità: quella classica e quella cristiana. “Con tutta franchezza e senza impedimento”.


Recensione di Sonia Remoli


Ricordate che eravate violini – Meditazione notturna per una voce sola –

TEATRO BELLI, 5 e 6 Aprile 2023

Sa già tutto: sa che si sta approssimando la sua fine; sa che scriveranno su di lui che è stato un poeta, alcuni; un idiota, gli altri. Sa che lo dipingeranno e lo riprodurranno su pietra.

Ma non sapeva quanto potesse essere straziantemente dolce essere un Uomo. E com’è bella la Terra; bella da morire. Per questo trova così difficile separarsi da tutto ciò.

Si tortura chiedendosi perché suo Padre non risponda al grido d’aiuto del Figlio. Ma soprattutto lo ossessiona il dubbio di chi sia lui ora. E se riuscirà, solo con le sue umane forze, ad essere all’altezza della situazione.

Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”

Questo è il Cristo che emerge dalla drammaturgia di sublime bellezza diretta da Francesco D’Alfonso: un Cristo che sente irresistibile l’esigenza di dedicare tutto il tempo che gli resta a meditare, a riflettere su ciò che ora lui è diventato, dopo questa esperienza di travolgente “umanità”.

Il musicista Lorenzo Sabene, il regista e drammaturgo Francesco D’Alfonso e l’attore Giorgio Sales

Perché restare presente a sé stesso, senza lasciarsi andare totalmente alla disperante angoscia dell’attesa, può aiutarlo a prendersi cura di sé stesso. Solo lui può farlo. Solo lui può dedicarsi quell’attenzione unica, speciale, che riuscirà a fargli sostenere il peso della disattenzione altrui.

È la sua, una meditazione notturna di rara bellezza: come può essere bello ciò che è umano, intriso contemporaneamente, cioè, di bene e di male.

Il Figlio fatto Uomo si cerca e “si legge” nelle ore della sua “passione”, quelle notturne – dal crepuscolo all’alba – attraverso le parole laiche di altri Uomini, che di lui parleranno. Poeti e scrittori come J.L. Borges, J. da Todi, K. Gibran, M. Luzi, A. Merini, E.E. Schmitt.

Prende vita così una consapevolezza filiale e umana che risplende di disperazione. Un Gesù che ha paura. Che non sa attendere. Che è divorato dall’ ansia: non ultima quella da prestazione. Che piange.

In una stanza. Senza riuscire a fare a meno di ascoltare musica: quella di J. S. Bach, di F. De Andrè, di J. Dowland, di S. Weiss, di S. Landi, di M. Lauridsen, di A. Piccinini, di M. Ravel e di F. Valdambrini. “Sepolto” sotto infiniti fogli: quelli dei libri che parleranno di lui. Senza smettere di cercarsi in uno specchio: e trovandoci, dentro, anche noi del pubblico.

Ma a lui non basta: avanza fin sulla ribalta per sentirci più vicini. Noi, invece, “la sua presa” vocale, la sentiamo ancor meglio del tatto. Più che se ci toccasse. Ci cattura: ci fa suoi; scaccia qualsiasi altro pensiero dalla nostra mente e dal nostro cuore. Esiste solo lui e ciascuno di noi. E la sua meditazione diventa anche la nostra.

Ha lo sguardo seducentemente duro, subdolo, avvelenato dall’angoscia. Non è il volto dei pittori. Ma si danna chiedendosi se ancora lo ameremo. Se lo invocheremo.

“Com’è forte la paura contro la grazia!”- si ripete.

E poi al Padre: “perché non intervieni ?” .

Abbandonato: “stordito da un assordante silenzio”.

E pensare che questo era il suo “sogno”: diventare “uomo” .

Ma com’è possibile che proprio un sogno l’abbia trascinato verso questa fine? Una fine che gli fa così paura? Com’è possibile essere traditi dalla legge? Com’è possibile essere traditi con un bacio?

La meditazione di Cristo prende avvio in simbiosi con la tonalità armonica minore dell’ammaliante accompagnamento musicale di Lorenzo Sabene, dove l’azione sinergica di liuto, torba e chitarra è insieme balsamo e graffio. Ma poi sale in un crescendo fino alla tonalità armonica maggiore. È un Cristo che s’affanna e ansima. Quasi come una belva. E anche noi del pubblico ci scopriamo a cambiare frequenza di respiro.

Lorenzo Sabene

Un Cristo-Uomo che perde la sua “centratura”, il suo equilibrio: accade al suo corpo ma anche alla parola, alla voce.

Arrivano i soldati: lo catturano, lo processano e lo crocifiggono.

E lì, sulla croce, il Figlio di Dio “sbiancò come un giglio”.

Lo depongono e lo coprono con un bianco sudario. Meravigliosa la coreografia di gesti fisici e vocali alla quale Giorgio Sales dà vita con questo velo bianco: quasi una danza con qualcosa che sembra ma non è. Ma a breve si rivelerà.

Complice di raffinata efficacia drammatica, un disegno luci attento e sapiente che ci accompagna, contrappuntisticamente, fino alla rinascita. Fino alla resurrezione.

Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”

Ma è un attimo. Il sipario si chiude e in noi resta più che la gioia, la voglia disperata di stare ancora con Lui nei momenti della “passione”. Forse perché ora, attraverso questa meditazione laicamente sacra nella quale siamo riusciti a sintonizzarci, abbiamo scoperto il desiderio e la capacità di essere presenti a noi stessi. Di osservare e di osservarci. Anche nel dolore.

Francesco D’Alfonso

Una splendida occasione di bellezza, ci offre questo spettacolo di Francesco D’Alfonso, rievocando la ciclicità visceralmente sacra degli indimenticabili giorni della Passione Cristo.

Due perle, i camei fuori campo di Roberta Azzarone e di Lorenzo Parrotto.

Giorgio Sales ci strazia. Ma non possiamo farne a meno. Riesce ad essere tutto e il contrario di tutto. Suo, è il profumo dell’attore.

Giorgio Sales

” Voi che siete oppressi ed esalti nel male,

ricordate che eravate violini

pronti a suonare le ragioni del mondo ”

(Alda Merini, Cantico dei Vangeli).