
Questa di Gian Mario Villalta è una raccolta di poesie densa di feroce compassione verso la fragilità umana.
Una “poetica dell’eppure” potrebbe essere definita la sua: una congiunzione avversativa decisamente potente, che rivendica l’esistenza di altro. Lo sguardo acuto del poeta, infatti, percepisce e rende disponibile al lettore la sensazione che esista in noi, nonostante la nostra inevitabile fragilità, qualcosa che non si rassegna a rassegnarsi. E che ci spinge ad amare alla follia, proprio ciò che stiamo per perdere:
“…sei geloso di tutto quello che stai perdendo, re di tutto il perduto”.
“ Sono rimasti a dirsi ancora di guardare i ciliegi fioriti per vedere l’aria tenera fargli il solletico, il bianco sospeso, le labbra secche sui denti scoperti in un sorriso “.

Gian Mario Villalta
Ma quindi, dov’è la vita che ci fa vibrare? “Dove sono gli anni” ? Non quelli che il calendario pretende di di organizzare. No, piuttosto quelli che “non si lasciano pensare mentre vivi ”.
“Il respiro “ – ci rivela Villalta – “ viene dalle bassure dove l’acqua stagna”. E come i salci, piante (oramai scomparse) dai rami flessibili e resistenti, anche noi possiamo renderci disponibili, di facile ambientazione. Senza aver paura di sapere “perché fa male quando viene la gioia”. Piuttosto lasciandoci andare al tempo, senza pretendere di rispondere a domande quali: “che cos’è tuo” ? , “cos’è per sempre” ? Perché il tempo – continua Villalta – “ è un disegno breve di brividi “.
E perché ciò che più riesce a comprendere la realtà che ci circonda non è la mente. Ma la pelle, che “si lascia tatuare dall’immagine che s’apprende ardendo lo sguardo coerente al fermento che forma la mente “ e ci conduce, attraverso “brividi“, a trovare gioia laddove ci scopriamo esposti a tutto. Portati via. Fino ad accettare di rimanerne lacerati. Perché “il corpo dimentica tutto il dolore, dopo che smette di fare male ora”. E allora: “ ___ sia “ .

Ecco così che la bellezza di questa poetica si realizza particolarmente nel saper individuare tutte quelle suggestioni capaci di rivelarci le forme che può assumere quell’intimo “strappo”, che nasce dalla nostra urgenza di esprimerci e di identificarci ontologicamente attraverso un “eppure”.
È la consapevolezza di non volere che “basti vivere con il pasto che aspetta coperto da un piatto”.
È il desiderare “ un’altra ancora ultima chiamata, ultimi appelli ancora ripetuti ritentati ripersi…”.
E’ l’urgenza di supplicare un ” ancora, un’altra volta…se fa male ?”.
Perché – ci ricorda Villalta – ” resiste su questo pianeta ciò che muta e mutando esiste “.

Sezione interna del Nautilus
Ce ne fornisce un’interessantissima prova il Nautilus: lo splendido “fossile vivente” che, attraverso continui mutamenti, resiste da 450 milioni di anni. E che, proprio per il suo modo di stare al mondo, così affine alla poetica di questa raccolta, Gian Mario Villalta sceglie di rendere protagonista assoluto della copertina.

Il Nautilus passa la giornata in profondità, sul fondo del mare, ma per cercare cibo si muove verso l’acqua poco profonda: un po’ come “le bassure dove l’acqua stagna” che Villalta rivendica ricche di vibrazioni insospettabilmente soddisfacenti per noi umani.
L’ora del giorno che il Nautilus trova più favorevole per la caccia del cibo è al tramontar del sole: quando l’eccesso di luce si spegne gradatamente. E anche a noi capita di trovare, a volte, un folle appagamento proprio laddove il giorno muore per lasciare il passo ad altro, a qualcosa di più ambiguo e decisamente meno chiaro. È, ad esempio – scrive Villalta – “quando era troppo il cielo, il sorriso delle finestre, i gladioli e le portulache, dovevi capirlo perché tremavi”.

La conchiglia del Nautilus
Stupefacente, poi, è l’organizzazione interna di questo fossile vivente: per compartimenti stagni, ben 30 camere. Man mano che la conchiglia cresce, il Nautilus sposta il suo corpo in avanti nella camera più nuova e più grande. Allo stesso tempo, la conchiglia erige anche una parete per sigillare le camere più piccole e più vecchie, che diventano camere a gas, che aiutano così l’animale a galleggiare. L’estro di Gian Mario Villalta trova il modo per riprodurre questa stessa organizzazione nella struttura della sua raccolta di poesie, “sigillando le stanze più antiche” graficamente con il simbolo della spirale del Nautilus e poeticamente con un linguaggio diverso, più ancestrale.

Il Nautilus nella sua conchiglia
Questo rispettoso e dignitoso uso del tempo, dove il passato si chiude per trasformarsi in necessaria e preziosa leggerezza, risulta esteticamente interessante anche perché trova un riflesso nel modo di scoprire “dove sono gli anni”. Una filosofia esistenziale decisamente affine alla poetica di Villalta. Il Nautilus infatti, come noi umani, si muove in avanti e sa che non deve tornare in vecchie camere più piccole (quelle del passato) non appena se ne libera una nuova più grande (che per noi equivale ad una nuova opportunità di crescita e quindi a un nuovo mutamento): non ci starebbe più dentro.
Ecco allora che non si può restare indifferenti all’invito di questa corroborante raccolta di poesie: “Ama il tuo tempo, difendilo” . Invito accompagnato dalla provocazione: e tu ” di quanto bene sei ancora buono ? “.
Una poesia vigorosa, quella di Gian Mario Villalta, che con questa raccolta ha vinto il Premio letterario internazionale “Franco Fortini” 2023: attraverso molteplici suggestioni sa trovare il modo di arrivare a tutti. Dappertutto.
Una poetica iridescente la sua: capace di assumere un ventaglio di tonalità differenti e cangianti, a seconda dell’angolo di osservazione.
Proprio come la conchiglia del Nautilus.

Recensione di Sonia Remoli
