Se è vero che nulla l’uomo teme più dell’entrare in contatto con l’ignoto, vero è anche che l’ignoto è ciò che può eccitarlo maggiormente. Eterna è la dialettica tra Eros e Thanatos; tra mancanza e desiderio.
“Siamo ciò che ci manca”.
Siamo ciò che desideriamo.
Nadia Baldi, la regista dello spettacolo “Settimo senso”
Desiderio urgente del fertile sodalizio artistico tra l’inventiva della regista Nadia Baldi e l’autore Ruggero Cappuccio, noto per l’esaltazione del segno sonoro, è quello di far conoscere l’ “altra Moana Pozzi“, quella che è restata celata dietro ciò che ci siamo ostinati a voler vedere. Così come è loro desiderio far cadere il velo “sul non visto” del concetto di pornografia.
Ruggero Cappuccio, autore dello spettacolo “Settimo senso”
Un rimando iconografico apre lo spettacolo: “I fortunati casi dell’altalena” (1767) di Jean-Honoré Fragonard, pittore della sensualità del rococò francese. Anche la Moana della Baldi (una metamorfica Euridice Axen) come la donna sull’altalena ritratta nel quadro siede su “un trono” di tulle rosso. E dondolando sospinta dal suo pubblico ottusamente fedele, si lascia intrigare da un misterioso uomo, al quale ha maliziosamente lanciato la sua scarpina.
Jean-Honoré Fragonard, “I fortunati casi dell’altalena” – (1767)
Nella narrazione è una balaustra in ferro battuto a definire il limite generatore di mancanza (e quindi di desiderio) tra la donna e il misterioso sconosciuto della terrazza accanto. E, come nel quadro di Fragonard, lei si priva di una scarpa. Ma, a differenza del quadro, qui siamo in una splendida notte stellata, riprodotta da magiche architetture in pizzo nero: scene curate e sapientemente celate/rivelate dal disegno luci di Nadia Baldi.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
Canta, Moana ma il suo canto ha un’anima dolente, quasi lamentosa, che ricorda il threnos (canto funebre) greco. Perché “la morte è un passaggio dal sonoro al muto”. E la morte di Moana Pozzi ? È stata forse una messa in scena? Di certo il suo corpo è stato “un distributore d’oblio sulla vita”, la quale è “una malattia mortale, trasmessa per via sessuale”.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
No, il suo è stato “un gioco per il gioco”: lei ne fissa le regole ma senza nessun inganno. Senza violenza. Come accade nel gioco delle “6 cose da toccare”. Un incastro perfetto come quello tra “presa e spina”.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
Euridice Axen, l’interprete in scena di Moana Pozzi, strega lo spettatore attraverso una così vasta gamma di espressività vocale, che lo spettacolo potrebbe funzionare anche a luci spente.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
Leggi l’intervista a Euridice Axen su “Vanity Fair”
Arriva con la pioggia: lei stessa si fa pioggia. Una melodia al pianoforte ne riproduce il ritmo e il peso. La vediamo scendere dietro una finestra illuminata e poi entrare in sala, catturata dal mistero di una tela bianca. La fissa, poi prende in mano il pennello. E, liberando le emozioni che la invadono, le traduce in canto: sarà la voce a guidare la mano, dal tratto davvero molto interessante.
Rosanna Fedele interpreta una Frida Kalho (i testi infuocati dello spettacolo sono tratti dal libro di Pino Cacucci “Viva la vida!“) quotidiana nella sua eccezionalità, vestita in tuta sportiva, a sottolineare ancor più che “Siamo tutte Frida”. Può capitare a chiunque di vivere un amore che è “un lento avvelenamento” e tardare ad allontanarsene, perché è insieme “arsura e pioggia”. E poi disprezzarsi per come ci si è lasciate martoriare.
Attraverso un uso ammaliantemente icastico della voce, che Rosanna Fedele modula in simbiotico accordo al corpo e allo sguardo, la sua Frida inizia a confidarci il primo incontro con la morte, efficacemente riprodotta dall’inventiva di Alessandro Baronio. Accetta di “danzare” con lei quel giorno dell’incidente in autobus: ne esce in brandelli e il suo corpo risulta “un rompicapo per chirurghi senza fretta”. Le dicono che non si sarebbe più alzata da quel letto. E invece lei riprende a camminare.
Ma non fu un miracolo: solo un diverso passo di danza con la Morte che, poco dopo, riprendendo lei a guidare la danza, le sottrae tutti e quattro i figli. Un dolore immenso, il più grande. Ora, rivivendolo, cerca di incanalarne la potenza dilaniante nel disegnarne i loro quattro ritratti. Immaginandoli, non avendoli mai conosciuti. Ma non è sufficiente: il dolore sfugge agli argini. E allora li canta (i testi delle canzoni sono di Rosanna Fedele, musicati da Paolo Bernardi).
Ritorna poi al suo Diego, al loro primo incontro mentre lui dipinge “eterni murales” e lei gli propone di visionare “senza inutili complimenti” i suoi dipinti. Ma qualcosa torna ad eccedere in Rosanna/Frida: un dolce e straziante ricordo la spinge a lasciare un segno dell’amore che la pervade sul murales di scena. Ma è inutile: è troppo invadente e lei non oppone più resistenza.
Si lega allora a lui, anche fisicamente grazie al guizzo registico di Andrés Rafael Zabala, e si fonde al mascherone di Diego Rivera, creato per l’occasione sempre da Alessandro Baronio. L’elefante e la colomba: così scrivono i giornali il giorno successivo al loro matrimonio. Ma lei non ha dubbi: è la sua personale rivoluzione. È la sua ossessione: “Diego nelle mie urine; nella punta della matita; nell’immaginazione; nella malattia…”. Un legame che “stringe” fino alla lacrime: “io ho avuto tutto, malgrado me”. Torna a rifugiarsi nel canto ma la sua è ora una preghiera, un’invocazione disperata: “ma che diritto ho io di volerti diverso!”. La stanchezza la invade: non sente più la forza di attaccarsi alla vita come una sanguisuga. Si scioglie. In pioggia.
Uno spettacolo incantevole in un luogo incantevole: per non dimenticare Frida Kahlo. Per non dimenticare le donne.
Lo spettacolo è fruibile anche sulla piattaforma a pagamento CHILI TV
I PROTAGONISTI
Rosanna Fedele
Una vita all’insegna dell’eclettismo. Disegnatrice, stilista, pittrice, cantante e attrice. Si dedica con successo al doppiaggio e alla recitazione. E’ protagonista di diversi cortometraggi e pubblicità e nel 2015 è protagonista del film “A Dark Rome” di A. R. Zabala che ottiene riconoscimenti e premi a livello internazionale (MFF di New York, Marbella International Film Festival per citarne alcuni). L’amore per la musica e il canto restano una costante sin dall’infanzia. Il trasporto, in gioventù, per i film “musicali” si tramuta in passione per il jazz. Nel 2010 si dedica alla realizzazione del suo primo album “What is it For?”, titolo del brano originale contenuto nel disco distribuito dalla Philology Records per la Revelation Series. Il desiderio di espressione personale si fa sempre più forte. “Sogni Diversi”, un album in uscita a dicembre 2015, in collaborazione con il Paolo Bernardi Quartet, è il risultato di questo percorso nel quale la cantautrice mette in musica i propri sentimenti, dove le sonorità jazz sono di sostegno alla complessità e alla bellezza della lingua italiana: un omaggio alle proprie radici, alla propria terra.
Il pianista Paolo Bernardi
Nato a Roma, ha compiuto studi musicali classici, diplomandosi in pianoforte presso il conservatorio “Respighi” di Latina; successivamente, ha affrontato lo studio della musica jazz sotto la guida di validi maestri, quali Cinzia Gizzi, Riccardo Biseo, Rita Marcotulli e della composizione con Luigi Verdi, Alfredo Santoloci e Javier Girotto. Si diploma in Musica Jazz e successivamente consegue la laurea di II livello in Jazz presso il Conservatorio “S. Cecilia” di Roma, sotto la guida del M. Paolo Damiani col massimo dei voti e la lode. Ha, all’attivo, numerose registrazioni pubblicate da DODICILUNE, PHILOLOGY, ISMA RECORDS,SINFONICA JAZZ–NUOVA CARISH,SIFARE,collana L’ESPRESSOREPUBBLICA con un progetto di Massimo Nunzi. Nel 2008 nasce il PAOLO BERNARDI QUARTET. Con tale formazione si esibisce in prestigiosi locali romani e in rassegne nazionali significative, ottenendo un consistente riscontro positivo di critica. Laureato, con lode, presso l’università “La Sapienza” di Roma in Lettere moderne con indirizzo musicale, è giornalista pubblicista freelance.
Lo scenografo Alessandro Baronio
Alessandro Baronio, artista romano, umanista, animalista, sognatore, emozionato, “viaggiatore di sogni deragliati”, Alessandro Baronio è stato scenografo teatrale e ha lavorato per Xfactor, per Elisa nel suo tour, per Marco Mengoni, Nina Zilli, Anna Oxa, Angela Finocchiaro solo per citarne alcuni. E’ designer, ceramista, fotografo, restauratore e si occupa, tra le altre cose, di laboratori didattici con materiali di recupero per ragazzi delle scuole. Attento alla forma, attento al valore artistico del progetto cerca di coniugare sempre qualità e sostenibilità.
Il regista Andrés Rafael Zabala
Andrés Rafael Zabala, nato in Argentina e cresciuto fra l’Austria e l’Italia, è laureato in Cinema e Tv e diplomato operatore di ripresa. Nella sua carriera ha curato la regia di spot pubblicitari, video aziendali, documentari,e reality show per Canale 5, RAI 2, Studio Universal, Tele+ e Sky. In qualità di filmmaker, ha all’attivo nove cortometraggi che si sono aggiudicati importanti riconoscimenti. Il suo primo lungometraggio indipendente “A Dark Rome”, oltre ad essere stato selezionato in dieci festival nazionali e internazionali, ha vinto il premio “Best Thriller on 2015” al Macabre Faire Film Festival di New York. Andrés Rafael Zabala svolge da alcuni anni, parallelamente alla sua attività di regista, l’attività di docente di Regia e Cinematografia. Nel 2020 è uscito il suo libro “Registi disobbedienti – La cinematografia di ieri e di oggi oltre le regole”. (Edizioni Efesto – 2020). Dopo la “La prima notte” scritta e diretta da lui stesso, “Siamo tutte Frida” è la sua seconda regia teatrale. L’ultimo lavoro cinematografico “Malleus” sarà presentato a Febbraio 2023 al Festival di Londra.
Uno spettacolo “giocato” sulla ricerca della “giusta distanza”, dove Fabrizio Gifuni interpreta un Pier Paolo Pasolini che anela ad un contatto più vero con il pubblico. Fin da subito, si offre spingendosi sul confine del proscenio per poi “sfondare” la quarta parete fino a sedersi sui gradini, che lo vorrebbero separato dalla platea. E ancora più giù: in platea. Poi risale. Più tardi tornerà.
Quella di Pasolini è un’urgenza ad essere “messo a fuoco”, ad essere “inquadrato” nella giusta luce. E nessuno spazio più del teatro è adatto a dare la giusta ospitalità ad uno “spettro”, ad un “fantasma”. Perché è così che Gifuni si muove e Pasolini si sente ancora. “Un corpo sul quale si continua ad inciampare, non essendogli stata data giusta sepoltura”.
Nasce da questa esigenza, probabilmente, anche l’idea drammaturgica di interpolare determinati testi (“avvicinandoli” per mescolarli; “allontanandoli” per ripulirli; “integrandoli” per delucidare) con l’obiettivo, così caro anche ad Antigone, di condividere amore e non odio. Cercando un equilibrio tra “appartenenza” e “separazione”: poli che caratterizzano la nostra stessa esistenza.
L’adattamento di Gifuni parte da un concetto chiave: quello di nostalgia, di rimpianto. Si allaccia alla lettera aperta (scritta nel 1974 sulle pagine di Paese Sera) a Italo Calvino dove Pasolini si difendeva dall’accusa di rimpiangere l’Italietta “piccolo borghese, provinciale, ai margini della storia». Il rimpianto di Pasolini si è sempre rivolto piuttosto al «mondo contadino prenazionale e preindustriale», che ha vissuto «l’età del pane» ed era «consumatore di beni estremamente necessari». Non una classe sociale ma piuttosto un modo di vivere quasi roussouniano, una spinta a godere del sacro, precedente la storia. Precedente lo stato di alterazione vitale borghese: una “malattia” che provoca la desacralizzazione della vita.
Ciò che colpisce ed emoziona, è la modalità tutta gifuniana di “giocare” con il proprio ruolo: affiancandolo al protagonista del testo, o facendolo apparire/scomparire; nascondendolo o lasciando che il protagonista del testo si nasconda dietro Gifuni stesso. Cosicché lo spettatore finisce per trovarsi ad assistere a una sorta di danza tra narratore e personaggio; tra discorso diretto e indiretto. E come in una magica dissolvenza, Gifuni si appassiona a far balenare frammenti, dettagli. Uno spettacolo di una tale forza dirompente sul pubblico da sancire il sacro rituale della scena.
Non smette d’incantare, poi, la duttile corposità della sua voce; le mille modalità di “stortare” la bocca e di dare “forme” al corpo, finanche a divenire “fenicottero”: animale simbolo di equilibrio, sensibilità e rinascita. Conquistando e regalando allora, almeno per un attimo, quell’ “equilibrio” anelato.
Si fa strada nel buio. Ed entra con scanzonata eleganza, lui: chiuso nel profondo mare nero di un abito, dal quale spumeggia, bianchissima, una camicia. Il blu resta imprigionato negli occhi; l’acqua salata tra i capelli. Eppure il capriccio di un’onda gli invade la fronte. Solo su lui, complice, cade a picco la luna.
Sempre scanzonatamente, cavalcando l’estro e l’imprevisto delle onde, fischietta e ci pare di sentire: “Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei linotipisti, siamo gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri, e non abbiamo da mangiare, come è profondo il mare, come è profondo il mare”. Un dramma collettivo. E ci guarda insistentemente. Anche noi lui. E decidiamo di “salire a bordo”. La sua voce ci fa accomodare; ma è un attimo.
Avanzano le onde e, basculando, siamo costretti a cercare di continuo l’equilibrio. Misterioso è il mare, mai spaventoso. Complice, mai amico. “Sul mare si fugge o si rincorre qualcosa”: così scrive Joseph Conrad. Ma, come una canzone d’amore, il mare sa anche cullare i nostri cuori: cosi il finale de “La mer” di Charles Trenet. È un fascinoso montaggio di testi letterari e musicali, tenuto insieme dal fil rouge del tema del desiderio, quello scelto e organizzato da Lino Guanciale per questa magica serata.
E poi leggende e credenze marine da tutto il mondo, dove scopriamo essere “eroi gli uomini, quando incontrano l’onda del mare”. La platea si lascia incantare da questo interprete, profondo e dolce, che sa declinare tutti i colori del mare servendosi dei suoi occhi, dei suoi capelli, della sua voce, del suo corpo. Tra sussulti, sorrisi, sospiri e risa, prendono vita onde di applausi, che si srotolano sul “piccolo” mare di Corigliano Calabro, così come sul “grande” mare dell’epica. E sui versi dell’ Eneide, vanno le note di Fred Buscaglione.
E ancora: due diverse traduzioni a confronto: quella celeberrima di Annibal Caro e quella attualissima di una studentessa, che però trova come esaltare il focus del testo: la natura di “profugo” di Enea. Il fondatore della nostra civiltà, sì Enea, era un profugo. È interessante ricordarlo. Così come profugo della contemporaneità, per cinque lunghi anni, è stato il piccolo-grande Alì Ehsani, protagonista del libro “Stanotte guardiamo le stelle” (Feltrinelli). “Non litigare mai e non rassegnarti mai”: questi i “comandamenti” ereditati da suo fratello Mohammed, che non riuscirà ad arrivare insieme a lui in Italia. In mare e in terra, il suo fianco resterà orfano di questa preziosa presenza.
E come tutti coloro che ardono tra le fiamme del desiderio vitale, anche Alì non potrà fare a meno di aspettarlo tornare. Non tornerà. Ma scoprirà, Alì, che basterà alzare lo sguardo per ritrovarlo nelle stelle che popolano il cielo sopra di lui.
Lino Guanciale ha conosciuto personalmente Alì e quale testimonial di UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite), oltre all’impegno per le campagne in Italia, ha partecipato a brevi missioni in Libano nel 2017 e in Etiopia nel 2019. Nel mondo sono oltre 80 milioni le persone costrette alla fuga per guerre e persecuzioni. Donne, uomini e bambini sfidano il mare, il deserto e le montagne in lunghi e drammatici viaggi alla ricerca di un futuro e di un posto più sicuro.
“Restituire speranza a chi ha perso tutto, significa restituirla anche a noi stessi – dice Lino Guanciale nel suo diario di viaggio – Perché la cura reciproca è l’unico antidoto efficace contro la violenza e le derive fondamentaliste”.
Recentemente, il 25 agosto scorso, Lino Guanciale ha ritirato il Premio Ginesio Fest 2022 “All’ Arte dell’Attore”. Il direttore artistico Leonardo Lidi e i giurati del Premio San Ginesio, Remo Girone, Rodolfo di Giammarco, Lucia Mascino, Francesca Merloni e Giampiero Solari, si sono detti orgogliosi di conferire questo riconoscimento ad uno degli attori che negli ultimi anni si è sempre più distinto non solo per le sue indiscusse qualità attoriali, ma anche per la sensibilità artistica. Aspetti, questi, che lo hanno reso uno degli artisti più amati dal pubblico italiano.
CASTELLO DI PAGLIA(loc. Costa del Grillo – Travo di Piacenza), 14 Agosto 2022 –
CON MUSICA DEGENERE DI MIKELESS
E CON LA PARTECIPAZIONE STRAORDINARIA DI MATTEO FRALLI
~Studio sulla poetica dell’assenza~
Lo spettatore, per quanti sforzi possa compiere, non dovrebbe mai riuscire a raccontare ciò che ha udito, ciò da cui è stato posseduto durante l’abbandono all’opera teatrale. Questo sosteneva Carmelo Bene e questo è quello che in qualche modo è avvenuto. Ciò che tenterò di scrivere è solo quel che affiora di un’intima esperienza.
In questa prima restituzione del suo Studio sulla poetica dell’assenza,Giovanni Rosa cerca e trova una singolare modalità di dare forma ad un fedele tradimento del testo di Carmelo bene. Lui, l’attore, è il non-attore, colui che non agisce ma viene agito. È voce agìta dalla mano; è mano agìta dalla voce che solo così, entrambe “naufragate”, riescono a dare vita a qualcosa di diverso. L’attore Giovanni Rosa si dis-fa in un non-luogo di assenza per offrire al pubblico una nuova prova della genialità del testo di Carmelo Bene.
Oltre la scena, si manifestano almeno tre presenze: si ri-velano attraverso il segno guizzante (quasi un graffio) del pittore performer Matteo Fralli, che anche grazie alla voce di Giovanni Rosa tenta di lasciare traccia, su un grande telo bianco, della presenza epifanica di Carmelo Bene.
Matteo Fralli
È una proposta provocatoria quella di Giovanni Rosa nella quale lo spettatore viene dapprima destabilizzato e poi ipnotizzato come in un incantesimo. Quello che Giovanni Rosa propone è un attore-artefice dell‘hic et nunc. Qualcuno che ri-crea il testo originale riversando nella voce-corpo tutto: luci, costumi, scene.
Giovanni Rosa
La voce di Giovanni Rosa sa cosa indossare di passo in passo, sa dove e come illuminarsi o celarsi, sa cosa far immaginare sonoramente allo spettatore. Amplificando, equalizzazando. Così lo stesso guardare diventa ascolto, perché non siamo in una rappresentazione ma in una scrittura di scena, dove si sperimenta un non essere dove si è.
Un non essere in scena, un togliersi dalla scena, per essere oltre la scena. Un “naufragar”. Solo in questo progressivo abbandono del controllo può manifestarsi la presenza di Carmelo Bene. Non solo sul telo bianco.
Molto interessante la scelta della musica degenere di Mikeless, che spaziando dal funky allo swing e passando per il folk e il blues, si fa complice di un necessario perdersi.
Entrano insieme, attraversando velate nuvole, uniti dal comune intento della narrazione. Sono Uccelli che si appollaiano in diagonale sulla sinistra del palco; Umani che si stanziano nel centro; Suoni che si sintonizzano sulla destra.
Rievocano “l’inverno del loro scontento”, quando dalla notte del 3 dicembre, tutte le nuvole, sepolte nel petto profondo del mare, iniziarono ad incombere minacciose. Un vento di ghiaccio a salire. Gli intenti a mutare. E gli Uccelli ad essere “sempre più agitati e fruscianti come seta”.
Nell’omonimo racconto di Daphne Du Maurier, a cui lo spettacolo si ispira, non sono stati gli Uomini ad andare a chiedere agli Uccelli di prendere il governo delle loro città, come nella celebre commedia di Aristofane. No. Qui gli Uccelli, animati da una fame senza desiderio, sembrano stregati da un incantesimo. Costretti “con regole assegnate” e “codici di geometrie esistenziali”. Ubriachi di moto: il vento li anima, il vento è il segnale che precede i loro attacchi. Vento che gli interpreti rendono magnificamente nella voce; attraverso un’accurata prossemica ed esteticamente con ventagli neri, di piume.
La scrittrice Daphne Du Maurier
Gli uomini li guardano ma non sanno osservarli: solo Nat Hocken (colui che ripara cancelli e rafforza argini) sa farlo. Solo lui si rende conto che stanno “cambiando le prospettive al mondo”. Ma come Cassandra non viene creduto. Gli Uccelli hanno modo così di invadere le città, come gli Achei di uscire (apparentemente) all’improvviso dal cavallo di Troia.
Li vediamo anche, gli Uccelli: inquietantemente disegnati e proiettati su teli di velatino. Sono bianchi, sono neri, sono piume, sono becchi: “mescolati in strane amicizie, in cerca di una specie di liberazione, mai soddisfatti, mai fermi…come uomini che temendo una morte prematura, per reazione si buttano a capofitto nel lavoro oppure impazziscono”. La strana agitazione degli Uccelli risalta con evidenza anche perché le città sono molto tranquille e apparentemente si sentono ben protette. Appese alla routine quotidiana, alla musica della radio o ai comunicati-oracolo, trasmessi di tanto in tanto. Che questa volta non sono frutto dell’appassionata recitazione di Orson Welles, quando la sera del 30 ottobre del 1938, convinse mezza America che i marziani avevano dichiarato guerra alla Terra, dando vita a “La Guerra dei Mondi” !
Aleggia un’incomprensibilità della natura umana che ricorda “l’immensa complessità e la confusione dell’andare avanti degli uomini” raccontato con disperata malinconia in “Uccellacci e uccellini” da P.P.Pasolini.
Particolarmente accordati gli attori (Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Stefano Scialanga e Camilla Semino Favro): la voce di ognuno, “corpo” più di un corpo. Sofisticatamente efficaci i costumi dei tre “Uccelli” , riempiti da posture e piccoli scatti assai credibili.
Suggestivo il contributo sonoro di rumori e strida di uccelli (l’elettronica è di Alessandro Ferroni) deformati e ritmati come in una partitura e malinconicamente accompagnati dalla chitarra elettrica di straziante bellezza di Fabio Perciballi.
La regia di Lisa Ferlazzo Natoli e l’adattamento di Roberto Scarpetti hanno saputo restituire efficacemente il clima d’attesa, le atmosfere ossessive e il finale inquietantemente risolto nella minaccia di un’attesa ulteriore. Particolarmente persuasiva, inoltre, l’idea di coniugare metaforicamente la narrazione a tinte gotiche con il clima di rilassatezza, da club degli anni ’40.
Giorgio Barberio Corsetti SCHEGGIA ANCORA DI MILLE VITE esercitazione a cura di Giorgio Barberio Corsetti da Pier Paolo Pasolini assistenti alla regia Andrea Lucchetta, Luigi Siracusa con Anna Bisciari, Lorenzo Ciambrelli, Doriana Costanzo, Alessio Del Mastro, Vincenzo Grassi, Ilaria Martinelli, Eros Pascale, Marco Selvatico, Giulia Sessich
musiche originali e maestro di coro Massimo Sigillò Massara scene Alessandra Solimene costumi Francesco Esposito direttore di scena Alberto Rossi fonica Laurence Mazzoni sarta Marta Montevecchi Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale in co-realizzazione con Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” L’ iniziativa fa parte del programma PPP100-Roma Racconta Pasolini promosso da Roma Capitale Assessorato alla Cultura con il coordinamento del Dipartimento Attività Culturali
orari: dal 30 maggio al 1°giugno 2022 ore 19.00 – durata: 1h30’ –
Spuntano come fiori, baciati da un canto crepuscolare. Un canto che, la regia di Giorgio Barberio Corsetti e le musiche originali di Massimo Sigillò Massara maestro di coro, rendono incanto, incantesimo, rito magico. L’attenzione cade sulla parola: la prima delle magie dell’uomo, capace di generare l’impossibile, passando per l’intonazione della voce e per il ritmo del respiro, su cui si regge il suono. Consapevoli del potere dell’asserzione, i ragazzi di borgata di Corsetti spuntano dall’ansia tipica “di chi è, ciò che non sa”, di chi ama e conosce ora e ancora, “spinti da un festivo ardore”. Sono gli allievi del Biennio di specializzazione in recitazione e regia dell’Accademia “Silvio d’Amico”, la cui esercitazione, una produzione del Teatro di Roma, curata appunto dal regista Giorgio Barberio Corsetti, ne costituisce l’esito. E’ il regista a condurci da loro, guidandoci appena fuori dal Teatro India, dove la natura, indifferente e selvaggia, prende il sopravvento sull’edilizia civile e su quella post-industriale. Quasi fossimo noi del pubblico una macchina da presa, Corsetti di volta in volta ci gira verso il nuovo obiettivo da raggiungere ed inquadrare con il nostro sguardo: ora, ad esempio, l’interno di un edificio ormai privo di tetto. Qui i ragazzi si raccontano stornellando. Ed è un nuovo incanto. Rime pittoresche, salaci e pungenti, di sfottò uniti alla saggezza popolare dei proverbi : un spaccato di vita quotidiana fondato sul “contrasto”, una gara di bravura fra cantori dell’improvvisazione.
Il “nostro sguardo” viene spostato poi su un lato del cortile esterno del teatro, dove è stata ricreata l’ambientazione di un bar. Qui, dove “appare ancora dolce la sera”, i ragazzi di borgata sono soliti ritrovarsi, tra Viale Marconi e la stazione di Trastevere, “in tuta o coi calzoni da lavoro, ridenti e sporchi”. La carrellata dello sguardo prosegue e da dietro le inferriate dello stabile, o dall’unica finestra libera, parte un’invettiva contro le madri: quelle vili, mediocri, servili e feroci della “Ballata delle madri”. Veniamo condotti poi dentro, al buio: unico chiarore caravaggesco quello di una tavola dove i ragazzi si apprestano a farsi una spaghettata ma … non mangiano. E poi ancora più dentro ad assistere ad una scena di corteggiamento, separati da un velatino. E poi, di nuovo prossimi all’esterno, assistiamo al frantumarsi del mandala di un momento privato del poeta, catturato da Letizia Battaglia. E di nuovo fuori: tra la ferocia di uno scippo e la leggerezza di una partita di pallone. Fino al commiato: nella natura. Dalla quale, i ragazzi di vita, “come allora, scompaiono cantando”. “Sempre senza pace”: uno sguardo alla vita, uno sguardo alla morte.
La feroce freschezza degli allievi dell’Accademia “Silvio D’Amico”, complici la suggestiva scelta delle coordinate spazio-temporali da parte del regista Corsetti e la sublime malinconia evocata e declinata con elegante efficacia dalle musiche originali di Massimo Sigillò Massara, maestro di coro, fanno di questa esercitazione un gioiello di “folgorazioni figurative”, cesellato da un originale sodalizio armonico tra musica, versi e teatro.
Per arricchire il viaggio su e con Pier Paolo Pasolini, clicca qui
Uno spettacolo costruito sull’accordo tra parola e musica, per rivedere, rifondare e quindi celebrare i momenti di crisi che costellano la nostra esistenza. Crisi collettive, come quelle dell’emergenza climatica e della transizione ecologica ma anche personali, autobiografiche. Da affrontare con coraggio e fantasia, per riuscire ad apprezzare “il nuovo” senza bloccarsi ad aspettare che ritorni quello che era ma che non sarà più.
Quell’atteggiamento cantato da Sergio Endrigo ne “Il dolce paese“: brano che apre e chiude lo spettacolo. È il “beve un bicchiere e tira a campà, per vivere in fretta e scordare al più presto gli affanni e i problemi di tutte le ore. Tanto c’è il sole e c’è il mare blu” contro il “non lo so come si fa, ma voglio provarci” degli artisti. È la scelta di salutare con la parola “sani” anziché con la parola “ciao”. Con la prima si esprime la voglia di “gettare ponti”; la seconda allude invece al rendersi “servo”, “schiavo” dell’altro. Uno spettacolo che ci invita ad accogliere, ad aiutare, ad ospitare. Perché la “libertà” e l’ “altro” si danno in una sincronia inaggirabile.
Uno spettacolo dove Marco Paolini sceglie di far circolare storie, idee, esperienze. Eccentricamente. Perché il teatro ha il compito di aiutare a far scattare la scintilla nella mente e nel cuore degli spettatori, che a loro volta possono diventare attori sulla scena della vita.
La presenza scenica di Paolini trasmette molto efficacemente, attraverso la voce, i gesti e le parole, la necessità di un cambiamento. Perché cambiamento significa speranza.
Lorenzo Monghuzzi, che accompagna ed enfatizza la narrazione di Paolini con la complicità dell’armonica a bocca e della chitarra classica, sa come graffiare, solleticare o rendere balsamo i concetti, per tradurceli in emozione.
Dietro i due cantori, una cattedrale di carta, dove i vuoti dominano sui pieni. Perché così sono i “ponti”, quei sani collegamenti cioè che sanno di dover essere pronti a trovare sempre nuovi equilibri. Come sembrano ricordarci le carte da gioco ancora appoggiate e in attesa di “entrare in gioco”. Disponibili, accoglienti, generose: pronte e desiderose di aiutare.