Se è vero che nulla l’uomo teme più dell’entrare in contatto con l’ignoto, vero è anche che l’ignoto è ciò che può eccitarlo maggiormente. Eterna è la dialettica tra Eros e Thanatos; tra mancanza e desiderio.
“Siamo ciò che ci manca”.
Siamo ciò che desideriamo.
Nadia Baldi, la regista dello spettacolo “Settimo senso”
Desiderio urgente del fertile sodalizio artistico tra l’inventiva della regista Nadia Baldi e l’autore Ruggero Cappuccio, noto per l’esaltazione del segno sonoro, è quello di far conoscere l’ “altra Moana Pozzi“, quella che è restata celata dietro ciò che ci siamo ostinati a voler vedere. Così come è loro desiderio far cadere il velo “sul non visto” del concetto di pornografia.
Ruggero Cappuccio, autore dello spettacolo “Settimo senso”
Un rimando iconografico apre lo spettacolo: “I fortunati casi dell’altalena” (1767) di Jean-Honoré Fragonard, pittore della sensualità del rococò francese. Anche la Moana della Baldi (una metamorfica Euridice Axen) come la donna sull’altalena ritratta nel quadro siede su “un trono” di tulle rosso. E dondolando sospinta dal suo pubblico ottusamente fedele, si lascia intrigare da un misterioso uomo, al quale ha maliziosamente lanciato la sua scarpina.
Jean-Honoré Fragonard, “I fortunati casi dell’altalena” – (1767)
Nella narrazione è una balaustra in ferro battuto a definire il limite generatore di mancanza (e quindi di desiderio) tra la donna e il misterioso sconosciuto della terrazza accanto. E, come nel quadro di Fragonard, lei si priva di una scarpa. Ma, a differenza del quadro, qui siamo in una splendida notte stellata, riprodotta da magiche architetture in pizzo nero: scene curate e sapientemente celate/rivelate dal disegno luci di Nadia Baldi.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
Canta, Moana ma il suo canto ha un’anima dolente, quasi lamentosa, che ricorda il threnos (canto funebre) greco. Perché “la morte è un passaggio dal sonoro al muto”. E la morte di Moana Pozzi ? È stata forse una messa in scena? Di certo il suo corpo è stato “un distributore d’oblio sulla vita”, la quale è “una malattia mortale, trasmessa per via sessuale”.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
No, il suo è stato “un gioco per il gioco”: lei ne fissa le regole ma senza nessun inganno. Senza violenza. Come accade nel gioco delle “6 cose da toccare”. Un incastro perfetto come quello tra “presa e spina”.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
Euridice Axen, l’interprete in scena di Moana Pozzi, strega lo spettatore attraverso una così vasta gamma di espressività vocale, che lo spettacolo potrebbe funzionare anche a luci spente.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
Leggi l’intervista a Euridice Axen su “Vanity Fair”
Il Teatro India e Roma Capitale Assessorato alla Cultura hanno fortemente voluto che la messa in scena della prima teatrale di “Love’s kamikaze” fosse l’occasione per omaggiare la straordinaria figura di David Sassoli. Grande europeista, tra le personalità più illuminate e visionarie di riconosciuta capacità e autorevolezza morale, che tanto si è speso per attuare politiche di accoglienza e integrazione che potessero tenere unite solidarietà, difesa dei più deboli e diritti umani, sociali e politici. In sua rappresentanza, era presente in sala la moglie Alessandra Vittorini Sassoli.
“Se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”
Uno spettacolo che evoca urgenti domande e provoca necessari cortocircuiti emotivi. Com’è nell’autentica natura del teatro, che nasce laddove si fa strada un vuoto, una ferita, una frontiera tra noi e gli altri. E contribuisce a farci superare “la vigliaccheria del vivere”: la paura del diverso, dell’ignoto, della vita e della morte.
Uno spettacolo diretto con poetica veemenza e slanci fiammeggianti da Claudio Boccaccini, che ha ricomposto nel proprio crogiolo registico l’occasione, contenuta nell’intenso testo di Mario Moretti,
Il testo “Love’s kamikaze” di Mario Moretti
di fondere la storia di una grande passione d’amore assieme a quella di un rovente conflitto tra due culture. Conflitto la cui risoluzione pare avvolta in un’attesa dai contorni beckettiani. Occasione irresistibile per chi, come Boccaccini, predilige esplorare testi in cui sia possibile investigare temi dal respiro anche sociale, civile e politico. Come testimoniano i suoi lavori su Giordano Bruno, Pasolini e Salvo D’Acquisto, per citarne alcuni.
Claudio Boccaccini
Boccaccini sceglie di immergere il suo adattamento in una scenografia povera di oggetti scenici per riempirla di tensione civile ed erotica. Tensione che i due attori in scena sanno termicamente restituire in tutte le declinazioni emotive. Qualsiasi cosa si dicano. Generosamente. E che la struggente sensibilità del compositore Antonio di Pofi sa tradurre in un raffinatissimo contrappunto musicale, seducentemente enfatico.
Un amore quello tra Noemi (un’effervescente Giulia Fiume) e Abdel (un avvolgente ma fermo e secco Marco Rossetti) che nasce con un destino inscritto nella cifra dell’ardore della fiamma, come il disegno luci non manca di sottolineare. E custodire. Infiammabili sono le origini dei due amanti, che appartengono a due civiltà ostili: lei ebrea, lui palestinese; infiammabile è il contesto socio-politico in cui sono immersi: una Tel Aviv, sconvolta dai drammatici eventi della Seconda Intifada; infiammabile è la qualità del loro amarsi: una passione eroticamente esplosiva; infiammabile è il luogo segreto dove trovano rifugio: il bunker del locale di controllo della centrale elettrica dell’Hotel Hilton. Infiammata, la sublimazione finale.
Nel loro nascondersi per vedersi, Naomi e Abdel intrecciano la lingua della logica a quella dell’istintualità. In un alternarsi di rituali, da quello del caffè a quello all’alcova, i due mettono a confronto le loro civiltà divise, toccando, ognuno dal proprio punto di vista, i temi che separano i differenti popoli. E mettendo a nudo paure e condizionamenti della propria infanzia.
A differenza di Abdel, Naomi riesce ad immaginare un orizzonte dove “il confine” può diventare il luogo dell’ “incontro” e non solo il luogo di una netta separazione. Incontro che, grazie ad una poetica e sensuale trovata registica, è simboleggiato dal velo bianco con il quale lei danza (interagisce) per tutto lo svolgimento dello spettacolo. Naomi poi sa essere ironica, in pieno stile jewish: un umorismo audace, il suo, diretto, travolgente, dissacrante: fondamentale per esorcizzare la paura. Un saggio meccanismo di difesa, un espediente necessario alla sopravvivenza.
Abdel invece è più disilluso, riflessivo, crepuscolare. Ed essendo poco incline a comprendere la totale assenza di territori inviolabili alla satira, spesso non coglie la fertilità dello scherzo ma vede in esso un’insolente provocazione. Nonostante tutto e tutti, però, lui ama Noemi. E nel perdersi dentro le sue appassionate contraddizioni, riesce a commuoverci. Marco Rossetti (l’interprete), con la sua multiforme e sincera potenza espressiva, ci trascina dentro i meandri delle sue ossessioni e ci porta dalla sua parte.
I costumi (curati da Antonella Balsamo) sono una seconda pelle: indossata per essere tolta. Per rivelare la nuda essenza della libertà. Ingabbiata in corpi, destinati a tradursi in luce. Come immaginava il poeta preferito di Abdel:
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.
(Mahmoud Darwish, “Pensa agli altri”).
Una candela sulla vita in bilico, su un domani imperscrutabile. Ma suggellata, la loro, da un rituale di unione: “solo se la facciamo insieme, questa azione avrà un senso”. Un filo nella colossale trama del mondo. Anzi un nodo. Punto d’incontro e d’evoluzione di un ordito più vasto, sancito da un rito che nella sua purezza ha il valore di un archetipo. “Noi siamo i primi kamikaze dell’amore. Noi, Naomi Rabìa ebrea e Abdel El Abdà palestinese, ci amiamo profondamente …”.
Il loro amore è la prova che è possibile vivere “un incontro” che riesca a disarmare il confine difensivo della realtà. Sono nemici ma si amano. E dichiarano con il loro amore che anche tra civiltà ostili ci si può amare.
E allora, “se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”
“Love’s Kamikaze” di Claudio Boccaccini è uno spettacolo che sorprende e toglie la parola. Con una forza inattesa ci spinge a lasciare la poltrona, da dove guardiamo comodamente lo spettacolo del mondo.
Qui l’intervista al regista sulla genesi dello spettacolo “Love’s kamikaze”. E non solo.
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni adattamento Roberto Scarpetti
drammaturgia musicale Gianluca Ruggeri
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Un velo ci separa dal penetrare un lussureggiante ecosistema sonoro: un’orchestra di percussioni, fiati e tastiere (dove Gabriele Coen è ai fiati, Ivano Guagnelli alle tastiere e Gianluca Ruggeri alle percussioni). Di qua dal velo, l’intrigante e intricato ecosistema della narrazione, ovvero delle parole degli interpreti (Tania Garribba, Arianna Gaudio, Alice Palazzi, Stefano Scialanga, Francesco Villano e Roberta Zanardo). Sono le emozioni, quelle più ataviche ed ancestrali, l’elettricità che riesce a collegare i due ecosistemi, stabilendo tra loro una sinergia potentemente visionaria. E metamorfosi magiche prendono vita, attraverso apparizioni/sparizioni, trasformazioni e salti da un luogo all’altro/da un tempo all’altro. Un po’ alla maniera di Georges Méliès.
Visionarietà che la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e di Alessandro Ferroni (con la collaborazione di Roberto Scarpetti per l’adattamento del testo e di Gianluca Ruggeri per la drammaturgia musicale) organizza e districa nella forma inedita della “serialità teatrale”. Traccia cioè per noi, all’interno della conformazione labirintica del tema della “Selva”, un percorso-spettacolo articolato in tre tappe (tre serate) per attraversare ad ogni tappa ciascuno dei tre romanzi che compongono la “Trilogia dell’Area X”.
Prende forma così un insolito ed affascinante spettacolo, tratto dall’omonimo testo di Jeff VanderMeer, nella forma del melologo sci-fi. Si tratta di una composizione artistica dove la recitazione di un testo letterario accompagnata da musica (melologo) è poi inserita nella più ampia forma dello sci-fi, ovvero del cinema di fantascienza (sci-fi è abbreviazione di science fiction). Ieri sera si è esplorata la prima tappa del percorso, attraverso il primo romanzo della trilogia: “Annientamento”.
In scena le stranianti avventure della dodicesima spedizione, incaricata di continuare l’indagine governativa sulla misteriosa Area X. Una spedizione, questa volta, di sole donne: una glottologa (che si ritira subito), un’antropologa, una topografa, una biologa e una psicologa. Una delle condizioni per procedere nell’arruolamento è la disponibilità a perdere il proprio nome: ciò che più ci caratterizza, che ci ancora al nostro “passato” e che quindi rende meno predisposti a subire necessarie “mutazioni”.
Dal campo base, dopo mesi di strenuo addestramento, solo sotto condizionamento ipnotico le donne attraversano “il confine” per riuscire ad entrare nell’ Area X. Qui scoprono che la mappa, che è stata assegnata loro in dotazione, non contempla la presenza di un’insolita “torre”, che affonda nel terreno. Essendo stata contaminata da spore emesse da misteriosi organismi presenti all’interno della torre, la biologa diventata resistente alle suggestioni ipnotiche e ricevuto uno straordinario potenziamento della propria capacità sensibile e sensitiva, si accorge, lei soltanto, che la torre è un organismo vivente che respira e ha pareti carnose come quelle di un esofago.
Queste iniziali mutazioni aprono ad una narrazione incalzantemente avvincente, immersa in una strabiliante complessità di ecosistemi (fascinosamente proiettati, oltre che raccontati ) e piena di divieti e di “confini” che non aspettano altro se non di essere infranti. Iniziando dal primo divieto: quello di non voltarsi appena valicato il confine dei confini: quello che introduce all’Area X. La biologa lo infrange e il suo sfidante coraggio d’interrogare l’impossibile non trova punizioni. A differenza di quanto avvenne invece ad Orfeo che, voltatosi lungo il tragitto d’uscita dagli Inferi, non poté più riavere la sua Euridice.
La biologa sa, a qualche livello, che “nulla che vive e respira è davvero oggettivo: nemmeno nel vuoto, nemmeno se il cervello avesse obbedito unicamente al desiderio di immolarsi per la verità “. Ma che cosa si nasconde in fondo alla Torre? Che cosa succede a chi osa guardare? Come si torna dopo aver guardato? Cosa si frappone nella mente di chi torna? Un velo.
Uno spettacolo estremamente coinvolgente ed attanagliante, nel quale la sinergia tra parola, suono, musica e immagine raggiunge livelli di altissima suggestione.
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P.S. Le immagini sono quelle che ogni sera trasformano la facciata del Teatro India in una soglia che apre all’universo immaginifico di IF _NEW ERA*22