Tebe al tempo della febbre gialla

TEATRO VASCELLO, Dal 26 Settembre al 2 Ottobre 2022 –

 “Sarebbe insopportabile se si limitasse il teatro allo spettacolo”.

E ieri sera ne abbiamo ricevuto in dono una prova: ciascuno dei partecipanti si è portato via, con sé, ciò di cui è stato testimone e protagonista. Tutto è stato predisposto per un’esperienza immersiva dentro se stessi: non dall’ingresso ufficiale per gli spettatori veniamo condotti ma penetrando il cuore pulsante dell’attrezzeria e del dietro le quinte.

Attraversando le mura perimetrali del palcoscenico: quelle dove vengono ancorate le strutture del mantegno, sulle quali sono annodate le corde che provengono dalla graticcia e sostengono gli elementi scenici sospesi.

Arriviamo così ad un “nuovo” spazio scenico, ricavato direttamente sul palco e abitato contemporaneamente dai partecipanti al rito e dagli officinanti. Un rettangolo spudoratamente vuoto, seducentemente povero, intorno al quale si percepisce già, a qualche livello, che non stiamo semplicemente sedendoci ma lasciando le “nostre mura perimetrali” disponibili ad essere invase.

In questa sorta di “descensus ad inferos”, Eugenio Barba, quasi come uno spettro-guida, si aggira tra la folla, già dalla biglietteria, “accompagnando” con un abbagliante sorriso, i vari gruppi di persone a percorrere questo primo tratto del “viaggio”. Si avverte qualcosa di insolito nell’aria ma anche sotto pelle: non è la piacevole eccitazione dell’attesa che precede l’inizio di uno spettacolo. Piuttosto l’insolita sensazione che qualcosa è già iniziato, che qualcosa ha cominciato a contagiarci emotivamente. Una leggera inquietudine accompagna una “febbre” che ci rende già complici di qualcosa di misterioso.

Le luci si abbassano quasi completamente: entrano gli officinanti e prendono posto in mezzo a noi. Il contagio diventa sempre più evidente, più intenso: da qui inizieranno il rituale, intonando canti o liberando primitive sonorità. E niente sarà più come prima. È un nuovo modo di percepire quello in cui si viene coinvolti. Un’esperienza ancestrale: carica di desiderio e di timore; di vita e di morte; di animalesca umanità e di sublime sacralità. Di furore e di sapienza.

Una dimensione dove tutto è insieme, mescolato in una sorta di caos primordiale. Tutto è rito. L’allontanarsi degli officinanti fa scattare un applauso ma si percepisce chiaramente che nulla è terminato. Non rientreranno in scena, per ringraziare e chiudere lo spettacolo: la condivisione teatrale è ancora aperta e continua. Nessuno era personaggio, nessuno era spettatore. Tutti, persone. Ancora imbevuti di questa intima esperienza, diamo avvio alla nostra anabasi, alla nostra risalita. Riattraversiamo le mura perimetrali del teatro abitati da un piacevole stordimento. Il nostro spettro-guida non ci perde d’occhio: è in cima alla fine della risalita. Una dolce impertinenza colora il suo abbagliante sorriso. Ora. 

Eugenio Barba visto da Riccardo Mannelli

Il male dei ricci

TEATRO ARGENTINA, 10 Settembre 2022 –

Uno spettacolo “giocato” sulla ricerca della “giusta distanza”, dove Fabrizio Gifuni interpreta un Pier Paolo Pasolini che anela ad un contatto più vero con il pubblico. Fin da subito, si offre spingendosi sul confine del proscenio per poi “sfondare” la quarta parete fino a sedersi sui gradini, che lo vorrebbero separato dalla platea. E ancora più giù: in platea. Poi risale. Più tardi tornerà.

Quella di Pasolini è un’urgenza ad essere “messo a fuoco”, ad essere “inquadrato” nella giusta luce. E nessuno spazio più del teatro è adatto a dare la giusta ospitalità ad uno “spettro”, ad un “fantasma”. Perché è così che Gifuni si muove e Pasolini si sente ancora. “Un corpo sul quale si continua ad inciampare, non essendogli stata data giusta sepoltura”.   

Nasce da questa esigenza, probabilmente, anche l’idea drammaturgica di interpolare determinati testi (“avvicinandoli” per mescolarli; “allontanandoli”  per ripulirli; “integrandoli” per delucidare) con l’obiettivo, così caro anche ad Antigone, di condividere amore e non odio. Cercando un equilibrio tra “appartenenza” e “separazione”: poli che caratterizzano la nostra stessa esistenza.

L’adattamento di Gifuni parte da un concetto chiave: quello di nostalgia, di rimpianto. Si allaccia alla lettera aperta (scritta nel 1974 sulle pagine di Paese Sera) a Italo Calvino dove Pasolini si difendeva dall’accusa di rimpiangere l’Italietta “piccolo borghese, provinciale, ai margini della storia». Il  rimpianto di Pasolini si è sempre  rivolto piuttosto al «mondo contadino prenazionale e preindustriale», che ha vissuto «l’età del pane» ed era «consumatore di beni estremamente necessari». Non una classe sociale ma piuttosto un modo di vivere quasi roussouniano, una spinta a godere del sacro, precedente la storia. Precedente lo stato di alterazione vitale borghese: una “malattia” che provoca la desacralizzazione della vita.

Ciò che colpisce ed emoziona, è la modalità tutta gifuniana di “giocare” con il proprio ruolo: affiancandolo al protagonista del testo, o facendolo apparire/scomparire; nascondendolo o lasciando che il protagonista del testo si nasconda dietro Gifuni stesso. Cosicché lo spettatore finisce per trovarsi ad assistere a una sorta di danza tra narratore e personaggio; tra discorso diretto e indiretto. E come in una magica dissolvenza, Gifuni si appassiona a far balenare frammenti, dettagli. Uno spettacolo di una tale forza dirompente sul pubblico da sancire il sacro rituale della scena. 

Non smette d’incantare, poi, la duttile corposità della sua voce; le mille modalità di “stortare” la bocca e di dare “forme” al corpo, finanche a divenire “fenicottero”: animale simbolo di equilibrio, sensibilità e rinascita. Conquistando e regalando allora, almeno per un attimo, quell’ “equilibrio” anelato.

E “allumando” tutta la scena.