Da lontano. Chiusa nel rimpianto

TEATRO INDIA, dall’8 al 12 Marzo 2023 –

SCRITTO E DIRETTO DA LUCIA CALAMARO

La scena (curata da Katia Titolo) è bianca. Asettica. Con una sola parete sul fondo. Vuota, ad eccezione di un piccolo tavolo e due sedie da campeggio. Una figlia (Isabella Ragonese) ora terapeuta, è “al di qua” dalla parete. Al di là della stessa, sta quel che resta della mamma (Emilia Verginelli). Si parlano. Sembra un insolito setting terapeutico, dove la figlia fa di tutto per costruire quell’ indispensabile “alleanza” che si deve instaurare tra medico e paziente. La mamma però è tutta concentrata a boicottarla.

Isabella Ragonese in una scena dello spettacolo “Da lontano. Chiusa nel rimpianto” scritto e diretto da Lucia Calamaro

Laddove la figlia, ormai adulta sente l’urgenza di ricucire, riparando con la parola e con l’ascolto uno strappo, un vuoto, una disattenzione del passato, la mamma reagisce invece sostituendo quasi totalmente la parola con i rumori infastidenti del trapano e del martello, con i quali la immaginiamo distratta in lavori. Che sia invece il suo modo di “riparare” ?

Isabella Ragonese in una scena dello spettacolo “Da lontano. Chiusa nel rimpianto” scritto e diretto da Lucia Calamaro

Stremata e frustrata dalla difficoltà di comunicazione, in un apparente casuale momento di pausa-tregua, la figlia “accampandosi nell’isola”, costituita dal tavolo e dalle sedie da campeggio, “si collega” via Skipe con una paziente, dalla personalità simile a quella di sua madre. È in un metaforico “stare in campo”, in un assedio senza attacchi diretti ma tale da provocare “una mossa”, che la genialità della regista Lucia Calamaro dà vita ad una sorta di teatro, nel teatro on line. Da remoto. Da lontano: come evoca il titolo.

Lucia Calamaro, autrice e regista dello spettacolo “Da lontano. Chiusa nel rimpianto”

La mamma, di là dalla parete, si permette finalmente di prestare ascolto, non essendo coinvolta in maniera diretta. Lo capiamo dal diverso atteggiamento che offre ora alla figlia, dopo che quest’ultima ha ultimato la seduta on line. “Hai mangiato?” – è finalmente la sua prima domanda. La prima volta che fa trapelare il suo essere disposta ad entrare in relazione. Non a caso Elsa Morante era solita sostenere che proprio questa domanda esprime, più di altre, l’amore. L’interesse per un nutrimento non solo alimentare. 

Isabella Ragonese e Emilia Verginelli (la madre)

La coinvolgente struttura della narrazione, seminando opportunamente dettagli, crea quella suspense necessaria per mantenere viva l’attenzione dello spettatore. Soprattutto su un tema dove potrebbe risultare scomodo “stare”.

Isabella Ragonese

Isabella Ragonese (la figlia), avvolta nel suo tailleur blu egiziano (i costumi sono di Francesca Di Giuliano) sa essere una di noi. Sa esserci vicina. Sa con la sua interpretazione, assecondare e valorizzare un testo che ci seduce a entrare in campo, a superare la tentazione di mantenere un confine, un margine. E arriva il punto in cui qualcosa ci spinge a fare un altro passo. E ci siamo dentro. Per fortuna. “Senza l’altro … ma come si fa !?” . 

Un setting-teatro intenso e versatile. Come il blu egiziano: il più sublime dei blu. Il blu di quel cielo che si può aprire, come il tailleur, rivelando le gialle stelle.

Isabella Ragonese


con la partecipazione di Emilia Verginelli

disegno luci Gianni Staropoli

costumi Francesca Di Giuliano

scene Katia Titolo

foto Natalia Nieves Iszakovits

produzione Pierfrancesco Pisani e Isabella Borettini

per Infinito Teatro Argot Produzioni

in collaborazione con Riccione Teatro


Isabella Ragonese e Lucia Calamaro

Il male dei ricci

TEATRO ARGENTINA, 10 Settembre 2022 –

Uno spettacolo “giocato” sulla ricerca della “giusta distanza”, dove Fabrizio Gifuni interpreta un Pier Paolo Pasolini che anela ad un contatto più vero con il pubblico. Fin da subito, si offre spingendosi sul confine del proscenio per poi “sfondare” la quarta parete fino a sedersi sui gradini, che lo vorrebbero separato dalla platea. E ancora più giù: in platea. Poi risale. Più tardi tornerà.

Quella di Pasolini è un’urgenza ad essere “messo a fuoco”, ad essere “inquadrato” nella giusta luce. E nessuno spazio più del teatro è adatto a dare la giusta ospitalità ad uno “spettro”, ad un “fantasma”. Perché è così che Gifuni si muove e Pasolini si sente ancora. “Un corpo sul quale si continua ad inciampare, non essendogli stata data giusta sepoltura”.   

Nasce da questa esigenza, probabilmente, anche l’idea drammaturgica di interpolare determinati testi (“avvicinandoli” per mescolarli; “allontanandoli”  per ripulirli; “integrandoli” per delucidare) con l’obiettivo, così caro anche ad Antigone, di condividere amore e non odio. Cercando un equilibrio tra “appartenenza” e “separazione”: poli che caratterizzano la nostra stessa esistenza.

L’adattamento di Gifuni parte da un concetto chiave: quello di nostalgia, di rimpianto. Si allaccia alla lettera aperta (scritta nel 1974 sulle pagine di Paese Sera) a Italo Calvino dove Pasolini si difendeva dall’accusa di rimpiangere l’Italietta “piccolo borghese, provinciale, ai margini della storia». Il  rimpianto di Pasolini si è sempre  rivolto piuttosto al «mondo contadino prenazionale e preindustriale», che ha vissuto «l’età del pane» ed era «consumatore di beni estremamente necessari». Non una classe sociale ma piuttosto un modo di vivere quasi roussouniano, una spinta a godere del sacro, precedente la storia. Precedente lo stato di alterazione vitale borghese: una “malattia” che provoca la desacralizzazione della vita.

Ciò che colpisce ed emoziona, è la modalità tutta gifuniana di “giocare” con il proprio ruolo: affiancandolo al protagonista del testo, o facendolo apparire/scomparire; nascondendolo o lasciando che il protagonista del testo si nasconda dietro Gifuni stesso. Cosicché lo spettatore finisce per trovarsi ad assistere a una sorta di danza tra narratore e personaggio; tra discorso diretto e indiretto. E come in una magica dissolvenza, Gifuni si appassiona a far balenare frammenti, dettagli. Uno spettacolo di una tale forza dirompente sul pubblico da sancire il sacro rituale della scena. 

Non smette d’incantare, poi, la duttile corposità della sua voce; le mille modalità di “stortare” la bocca e di dare “forme” al corpo, finanche a divenire “fenicottero”: animale simbolo di equilibrio, sensibilità e rinascita. Conquistando e regalando allora, almeno per un attimo, quell’ “equilibrio” anelato.

E “allumando” tutta la scena.