L’essenza: intervista ad Alessandro Fea

TEATRO PORTA PORTESE, 25 e 26 Febbraio 2023 –

Incontro Alessandro Fea per scoprire qualcosa di più sul suo spettacolo “L’essenza”, in scena in prima nazionale al Teatro Porta Portese sabato 25 febbraio alle ore 21:00 e Domenica 26 Febbraio alle ore 18:00. 

Uno spettacolo scritto, diretto e messo in musica dallo stesso Alessandro Fea, che è musicista e compositore ma anche autore e regista teatrale, nonché esperto in arti e terapie integrate.

Mi incuriosisce molto questo tipo di formazione e non resisto a chiedergli:

Che tipo di legame segreto si nasconde tra musica/parola/emozione ?

Il legame segreto della “ricerca”, del lasciarsi portare, del non fuggire di fronte ad un ostacolo, del saper restare dentro un momento difficile. Mettendosi in gioco. Scoprendo nuove risorse inaspettate.

E poi il legame segreto del “vuoto”, della pausa, del silenzio. Che può far paura ma in realtà è preziosissimo. Pieno di possibili creazioni.

Interessante. Tra l’altro questi due codici “ricerca” e “vuoto” sono le password per poter accedere anche ad una particolare destinazione: la “crisi” . Sei d’accordo?

Esattamente ! Anche di questo parla il mio spettacolo: Eleonora, la protagonista, è una donna che si trova ad un crocevia: non riesce più ad andare avanti nella stessa direzione finora percorsa. Sente che non è più possibile una crescita “lineare” ma non sa quale altra via percorrere. Un momento in cui un po’ tutti ci possiamo riconoscere.

Sicuramente. Forse la cosa che ci potrebbe allontanare è che non sempre ci viene facile “accettare” di avere enormi dubbi. E restare “impaludati” crea un po’ di vergogna. “Normale” è essere sempre efficienti. 

Sì, è vero. C’è questa tendenza a isolarsi e ad essere isolati. Io ho sentito l’esigenza di parlarne con molta apertura, senza dare necessariamente delle risposte. Perché è un vero peccato non sfruttare la ricchezza di un momento di crisi. Ma solo ognuno di noi può scoprire dove trovare le proprie risorse. Come racconta la storia che porto in scena. 

Sì, ho letto che Eleonora, una volta al crocevia, sceglie di fare un cosiddetto viaggio “a ritroso”. Torna indietro, alla ricerca di ciò che ora può aiutarla a dare un nuovo corso alla sua vita. Recuperando un po’ le sue radici, la sua “essenza”.

Infatti. Io stesso ho lavorato a questo testo per vari anni: sapevo “dove” volevo arrivare ma non capivo “come” arrivarci. Poi credo di esserci arrivato attraverso un lavoro di continua “asciugatura”. Un necessario progressivo “togliere”. 

Possiamo dire che nel tuo spettacolo il primo attore è il suono?

Sicuramente. Perché il suono è l’input che riceviamo prima di ogni altro segnale. Quello che ci arriva e ci colpisce con il percorso più breve. Sono solito affidarmi al suono anche per disegnare la luce.

Bello! Ma ci tengo a ricordare che in scena ci farai “incontrare” anche con due carismatici attori.

Due carissimi collaboratori: Annalisa Eva Paolucci (Eleonora) e il suo “speciale” alter ego Giancarlo Testa. Non rivelo altro.

Molto bene, Alessandro. Grazie e … ci vediamo a teatro ! 


Teatro Porta Portese

Sabato 25 Febbraio ore 21:00

Domenica 26 Febbraio ore 18:00

“L’essenza” di Alessandro Fea

Il filo di mezzogiorno

TEATRO ARGENTINA, dal 26 Maggio al 5 Giugno 2022 –

Come si sopravvive ad una caduta? Si può “discernere nel cadere”?

Vibrante e pura, Donatella Finocchiaro veste i panni di una Goliarda Sapienza passionale e onirica, vestita da notte e di notte. Sbuca di nascosto da una quinta, ci viene a cercare, ci prende per mano e come in una ripresa in soggettiva ci apre il teatro della sua mente: allucinato e insieme crudelmente lucido. Così, spudoratamente: come le regole della buona dizione esigono di fare, per pronunciare correttamente quelle maledette “e” aperte. Che ti scardinano la mascella. E non solo.

Con il desiderio impellente di raggomitolarsi vicino a noi della platea, come era solita fare con la madre, nel letto. Lei, però, senza guardarla. E ci avverte che la conditio sine qua non per sopravvivere lì, nel suo teatro mentale, è accettare il caos, dove tutto vive e coesiste nello stesso luogo. Dove i vivi e i morti stanno insieme. Adattando la vista alla foschia che avvolge tutto. Nel disperato tentativo di riallacciarsi alle proprie radici, che l’avviluppano ma insieme la sostengono; che l’aggrovigliano ma anche la nutrono. Ma soprattutto affermando e confermando la propria estraneità ad ogni pregiudizio morale. 

Al termine di questo notturno prologo, Iuzza (vezzeggiativo usato dalla famiglia al posto di Goliarda) entra nel sipario e ci conduce nella stanza della sua casa, dove l’analista (un fragile e immenso Roberto De Francesco) si reca tutti i giorni all’ora di mezzogiorno. Lui, quello che si ostina a chiamarla “Signora” e che ha cercato di organizzare il suo caos dentro categorie assolute, cercando di imporle la sua personale verità. Scoprendo poi nel corso del setting di essere anche lui, però, un paziente bisognoso.

Da qui l’idea registica di Mario Martone, resa con efficacia scenografica da Carmine Guarino, di immaginare uno stanza “a specchio”: rendendo così anche scenograficamente una particolare dinamica relazionale tra paziente e terapeuta (e più in generale umana). Avendo difficoltà a vedere le nostre ombre e persino le nostre virtù, la vita ci regala relazioni. L’altra persona ci fa da specchio, riflettendo la nostra immagine e dandoci la possibilità di ritrovare noi stessi. Da questo meccanismo non è immune neanche il terapeuta.

Come nella vicenda di Goliarda Sapienza, i problemi personali del terapeuta spesso approdano nel suo studio, vestiti dei panni dei propri pazienti. Condizione umanissima, che il regista sceglie di sottolineare senza giudicare, riconoscendogli tutta la dignità che merita. Non a caso, infatti, attraverso l’elegante adattamento di Ippolita di Majo, il registra Mario Martone costruisce una narrazione nella quale ripercorre la terapia con Ignazio Majore, rinomato freudiano dell’epoca, ma lo fa mettendo in scena uno sguardo che, grazie alla sovrapposizione della scrittura di Goliarda Sapienza, va via via rischiarandosi e insieme infoscandosi.

E lo specchio s’infrange: ne sentiamo il rumore; ne vediamo gli effetti. Perché così è la vita: coerenza-repellente. Martone, sulla scia del più profondo sentire della Sapienza, fa di questo spettacolo un inno all’incoerenza, così indissolubilmente legata alla natura umana. La sua è una narrazione interiorizzata e simbolica, che alterna i dialoghi con Majore a momenti di elaborazione analogica dei ricordi (che a posteriori verrà definita “scrittura di transfert”).

Terapia e passato si fondono in un unico nodo apparentemente inscindibile: uno problematizza l’altro, uno analizza l’altro. Da questa esperienza selvaggia, Goliarda Sapienza raccoglie i cocci di quello che vive come l’ennesimo amore ingiustamente soffocato. Abbandonata anche da Citto Maselli, il compagno che l’aveva indirizzata nelle mani di Majore, si rinchiude in casa e tenta di rimettere insieme quel garbuglio di emozioni indistricabili, che la brusca interruzione della terapia non le ha permesso di riconoscere e comprendere.

Ferita ma furiosamente viva, intuisce che ora la sua terapia funzionale e salvifica, è la scrittura. Capace di restituirle una libertà, che non esclude le trappole dell’umano, dolorosamente necessarie. Così, passo dopo passo, Goliarda Sapienza si riappropria della propria carne, delle proprie idee ma soprattutto del diritto alla morte. E così, scendendo in platea, per farsi prossemicamente più vicina a noi, ci invita a “pensare”, prima ancora di “dirlo” (cioè di ridurlo nelle convenzioni del linguaggio) che muore solo chi ha vissuto.