Con il vostro irridente silenzio

TEATRO VASCELLO, Dall’8 al 13 Marzo 2022 –

Come in attesa di un rituale è organizzato lo spazio scenico, nel quale è inscritto non un cerchio ma un rettangolo, il cui perimetro è tracciato dai fogli scritti da Aldo Moro durante la prigionia. Richiamano la stessa geometria i tre oggetti scenici, scelti per officinare il rito: un piccolo tavolo, una sedia e un microfono.

E poi entra in scena lui, Fabrizio Gifuni: non è ancora il passo di colui che officina il rito. Piuttosto il corpo, il passo e la voce di chi, quasi come un coreuta, sceglie una diversa prossemica (spingendosi cioè sul confine del proscenio) per informare chi (il pubblico) con lui a breve entrerà metaforicamente nel sacro spazio del rito. L’obiettivo da raggiungere è saggiare se la pietra-meteorite-AldoMoro risuona ancora ustionante o se invece sta perdendo calore. E se così fosse, allora occorrerà rianimarla, riportandola ad un’alta temperatura. L’ultima attenzione è per la parte del pubblico più giovane: per loro (numerosi in sala ieri sera) Gifuni traccia una mappa del contesto storico-politico, relativo all’episodio da vendicare e onorare. Da riscaldare e rianimare.

Ci siamo quasi. Ora non resta che gettare l’ultimo ponte per entrare nel vivo del rituale: Fabrizio Gifuni ci parla allora del teatro come del luogo dei fantasmi. E’ infatti il luogo dove hanno preso forma I sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello; il fantasma del padre di Amleto e ora avverrà la stessa cosa per Aldo Moro. Perché fantasmi sono i corpi che non hanno ricevuto un giusto onore. E allora tornano a trovarci, a disturbarci, a farci sentire più fortemente la loro presenza. 

Ora tutto è pronto. Dal fondale, una luce opalescente e lattiginosa allude al fatto che stiamo entrando in una dimensione sacra, dove nel rettangolo magico prenderà forma l’ombra del fantasma.

Gifuni si accinge ad entrarvi e nell’attraversamento cambia corpo: il passo diventa un balzo leggero, quasi un piccolo volo e le braccia lasciano la consueta tensione rendendosi disponibili a diventare altro. Entratovi, il suo primo gesto è quello del piegarsi sulle ginocchia (quasi un inchino) per raccogliere da terra della polvere bianca ammucchiata, con la quale si cosparge una parte dei capelli: ecco la fiezza dei capelli bianchi di Aldo Moro. Si avvicina quindi ai fogli del Memoriale e delle Lettere, appoggiati sul piccolo tavolo. Ma prima di prenderli in mano, si toglie la giacca e resta in camicia: è quella bianca di Aldo Moro, quella che lui amava indossare. Ora può impugnare i fogli e qui avviene un’ulteriore trasformazione: le braccia e le mani sono pronte a ricevere la tensione di quelle di Moro. Quella particolare tensione pervade il resto del corpo: le gambe, i piedi, il busto. Raggiunge il microfono. E, nell’offrirsi alla luce, vediamo nella sua interezza “il fantasma” di Aldo Moro. Anche le nostre orecchie ricevono la conferma di questa magia: dapprima percepiamo la trasformazione del respiro, poi il cambio di deglutizione ed ecco arrivano i primi segnali vocali, quasi gemiti. E poi, lei: la voce, che raccoglie, manifesta e sublima tutta la metamorfosi. Perfetta espressione del metodo mimico del suo amato Maestro Orazio Costa. Gifuni inizia l’interpretazione dei testi, alternando quelli del Memoriale alle Lettere alla famiglia.

Testi che si conoscono ma che ora raggiungono una temperatura inaspettata: diventano materia vivente, pulsante, lacerante e lacerata. Le parole hanno tutte un loro sapore, un loro odore e dettano il ritmo della narrazione. Insieme alle mani: che realizzano una traduzione visiva della potenza espressiva delle parole. Nell’attraversare questa esperienza, quasi mistica, il corpo del fantasma prende sul finale la postura disperata del protendersi in avanti, per tentare fino all’ultimo di provocare un qualche mutamento nei destinatari del Memoriale. Quando poi il mistero del rito si completa e raggiunge la sua conclusione, il fantasma di Moro non vuole abbandonare il corpo di Gifuni. Lo si legge dalla sofferenza che trapela nel raccogliere gli applausi. E anche noi del pubblico, testimoni partecipi del rito, lasciamo la sala portando impressa la sua traccia sulla nostra pelle.

Così è (o mi pare)

TEATRO ARGOT STUDIO, Dal 24 febbraio 2022 –

Una riscrittura per realtà virtuale di Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello, adattata e diretta da Elio Germano, con la partecipazione di Isabella Ragonese e di Pippo Di Marca.

Un esempio di quando le nuove tecnologie scelgono di configurarsi come campi di ricerca, per affrontare “i classici” da un punto di vista differente, senza la pretesa di sostituirsi alla tradizionale fruibilità del teatro. Creazioni che nascono dal teatro e che al teatro ritornano. La sfida piuttosto è sui contenuti e sui modi per realizzarli.

Le riprese si sono svolte presso la Tenuta Bossi dei Marchesi Gondi e presso il Teatro della Pergola di Firenze, il cui Direttore Artistico, Stefano Accorsi, ha sostenuto fortemente questo progetto, che segna l’inizio di un cammino ideativo con Elio Germano.

Indossando cuffie e visore si entra direttamente dentro allo spettacolo, attraverso una ripresa in soggettiva, cioè nei panni del Commendator Laudisi, personaggio appositamente inventato rispetto al copione originale. A lui, anziano padre di Lamberto (interpretato da Elio Germano), tutti i personaggi si rivolgono con rispetto. Questa trovata, che procura un iniziale piccolo shock allo spettatore (che si scopre in una diversa identità) agevola una visione sferica della scena.

Il testo pirandelliano è stato riadattato da Elio Germano ambientandolo nella società moderna, nella fattispecie in un salotto dell’alta borghesia, dove l’umana perversione a “spiare l’altro” risulta amplificata dalla possibilità di usufruire dei nuovi media. Il risultato che ne scaturisce è che questo supporto aiuta a perdersi ancor di più all’interno dell’ossessione di trovare un’unica verità, universalmente riconosciuta.

La storia della signora Frola, del signor Ponza suo genero, della sua giovane moglie e di un paese che non può fare a meno di interrogarsi su di loro e sulle loro insolite abitudini, non smette di farci riflettere sul nostro umano bisogno di mettere argini, confini e quindi (apparenti) certezze all’indeterminatezza nella quale, per natura, siamo gettati. Indeterminatezza e quindi incertezza che da un lato ci spaventa (perché ci dà la misura di un’impossibilità di controllare totalmente la realtà) ma che dall’altro ci intriga, ci rapisce, perché i vuoti d’informazione liberano il nostro desiderio (di sapere, di spiare) incarcerato dentro alle regole apatiche di un cero modo di vivere, accettato solo in quanto riconosciuto dai più.

I sorrisi del portiere

TEATRO SETTE, Dal 24 Febbraio al 6 Marzo 2022 –

Che cosa accomuna l’Arte di sorvegliare uno stabile all’esigenza di regalare un sorriso? Gli occhi. Come colui che attende alla cura di un palazzo si avvale nel suo lavoro soprattutto dell’uso degli occhi, così nel regalare un sorriso non sono solo le labbra a distendersi: un sorriso lo si va a cercare negli occhi, soprattutto. La ricchezza del Portiere Orazio Parini sta nel suo sguardo, nel particolare uso che fa degli occhi. Un uso propositivo, generativo, fertile. E di questa ricchezza lui ne è consapevole.

All’apertura del sipario, la prima cosa che sceglie di fare, infatti, è proprio quella di regalare al pubblico un irresistibile sorriso (a ben guardare “uno per ognuno”) al quale il pubblico non solo risponde ma sente di amplificare con un applauso. Subito dopo, prima ancora di iniziare a parlare con il Commissario, istintivamente il suo primo gesto è quello di “guardare”, o meglio, di guardarsi intorno: non il banale curiosare, o il subdolo guardarsi alle spalle, piuttosto il non perdere di vista qualcosa che è degno di interesse: eventuali esigenze dei suoi condomini.

Preziosa attenzione che anche Orazio ama ricevere dagli altri: non a caso arriva ad invitare calorosamente il Commissario a fargli tante “domande”. E che cos’è una domanda se non un desiderio di sapere da esaudire? da domare? La domanda non è incalzante come un’interrogazione: è più delicata, quasi elegante. Ed esprime una certa fiducia. Attenzione e fiducia che Orazio non sente di ricevere da nessuno degli ospiti del palazzo: “a me nessuno mi considera, qui”. Potrebbe, crogiolandosi in un euforizzante istinto di vendetta, replicare anche lui quest’ inumano atteggiamento verso gli altri.

Invece no. Lui sente l’esigenza di dedicarsi agli altri: ama compensarli. E sa che per riuscirci si può avvalere, proprio come in una partitura musicale, di “pause”. Perché la pausa può essere utilizzata ad effetto per stupire, oppure può regalare occasioni in cui alternare al “fare” il “pensare”. Ma sebbene Orazio sia così generoso nell’attendere alle necessità dei suoi condomini, questi stessi gli fanno pervenire una raccomandata dove, dietro l’efficace ed ipocrita motivazione di una necessaria riduzione dei costi condominiali, gli danno il ben servito.

“Figli di mignotta”- pensa Orazio – e con la perspicacia che il nome che porta gli regala, aggiunge che non è un’offesa: piuttosto “un attestato di stima”. Sì, come il celebre poeta latino di cui porta il nome, Orazio sa avvalersi di un’inusuale ironia per affrontare le vicissitudini della vita. Il destino che eredita con il suo nome lo porta a costruirsi una sua ars vivendi: quella che lui definisce la cultura derivatagli dall’aver praticato per anni “l’arte del portiere” e che ai suoi occhi risulta equivalente ad una triplice laurea in giurisprudenza, in psicologia e in scienze della comunicazione. E, se non bastasse, su tutte queste formazioni svetta anche un Master in “odorologia gastronomica”.

Con il susseguirsi delle “domande” del Commissario, Orazio si abbandona ad una ritrattistica dei suoi condomini, nella quale prende vita l’esigenza e la capacità di rappresentare gli ingiusti privilegi dei borghesi del suo tempo. Capacità che ha in comune con chi, prima di lui aveva il suo cognome: quel Giuseppe Parini de “Il giorno”. Ma, sul finale, si fa strada un colpo di scena e quella particolare parola (“Sempre”) che Orazio sceglie per iniziare la sua narrazione (“sempre così va a finì”) troverà una smentita. Almeno per una volta. 

Alla riapertura del sipario, incalzata da un appassionato applauso del pubblico, “Orazio Laganà” ci accoglie tutti con uno dei suoi migliori sorrisi: raggiante e fiero, come un condottiero alla guida della sua auriga.

Uno spettacolo che riesce a veicolare la profondità incandescente di alcuni temi attraverso la freschezza colorita di un arguto linguaggio registico, poeticamente efficace. 

Leggi di più su Rodolfo Laganà

Per maggiori informazioni sul regista Claudio Boccaccini e sull’autore del testo Carlo Picchiotti

Morte di un commesso viaggiatore

TEATRO QUIRINO, Dal 22 Febbraio al 6 Marzo 2022 –

Lo skyline di una New York anni ’50, quasi un sipario. Un commesso viaggiatore che lo percorre finché non volta l’angolo e arriva a casa. Una casa dove quello che resta delle pareti è ciò che un sisma, non solo tellurico, ha lasciato sopravvivere. Una casa, metafora di una psiche devastata da sordi terremoti emotivi. Che non si riescono neppure a guardare. E che vengono scambiati per sogni.

Una rete metallica circonda quel che resta di una casa, nella speranza di riuscire a contenere le macerie che si origineranno dalle prossime scosse, dai pensieri che vanno e vengono a vuoto. Come il viaggio del commesso, con il quale si sceglie di far iniziare la narrazione dello spettacolo.

A casa, ad attendere il marito, che manifesta fin da subito evidenti segni di asfissia (un emaciato e vibrante Michele Placido) c’è sempre la sua materna moglie geisha (una superlativa, per verità interpretativa, Alvia Reale). Apparente ossigeno vitale è il mito ossessionante del fare carriera, del “trovare la strada” per programmare ed assicurarsi il futuro.

In realtà, ciò non basta per “sentirsi qualcuno” e come spesso accade nelle dinamiche tra padri e figli, questi ultimi si orientano o per imitazione o per opposizione. E non funziona la regola che “va avanti chi si presenta bene”. Funziona invece provare “simpatia” per qualcuno e così risultare simpatici. Perché la simpatia non è ingannevole apparenza ma profonda capacità di entrare in sintonia con le emozioni dell’altro.

Willy, il commesso, è consapevole di non essere simpatico e di non risultare simpatico; piuttosto si definisce “un uomo ridicolo”, grottesco, che in parte ricorda l’uomo ridicolo di Dostoevskij ma qui senza un finale catartico, senza un sogno che salva e che aiuta a capire che «La cosa più importante è amare gli altri come se stessi; questo è tutto, non occorre altro: troverai subito come organizzar la vita». Willy sente che “il vento sta cambiando” ma il suo sentire resta molto in superficie: è un po’ il captare e il registrare del magnetofono, di cui tanto va fiero il suo datore di lavoro che, perfettamente sintonizzato sulla vigente economia creatrice di bisogni, proclama che “senza (magnetofono) non si può vivere”.


Tanti egoismi, tanto benessere. Ma possono tanti egoismi rendere tutti felici?  “Per farcela, a volte è meglio andare via” inizia a progettare Willy. Un andar via non tanto fisico, piuttosto un andar fuori di sé mentale. Un’evasione allucinatoria che già un altro commesso viaggiatore dall’altra parte del mondo aveva esplorato: si chiamava Gregor Samsa.

Ma Willy ha anche due figli: cosa lascia loro? Ereditare significa solo omologarsi o anche far proprio e quindi ri-ereditare? È tradimento questo? E se tradire fosse a volte necessario? Di lui diranno al suo requiem: “non conosceva se stesso”. Cosa serve per conoscere se stessi, per non tradire il proprio personale desiderio, per essere liberi?
Quasi tre ore di spettacolo scorrono davanti ai nostri occhi e arrivavano a turbarci. Anche profondamente. 
Interessante l’uso dello spazio scenico, declinato a rendere con efficacia interni ed esterni. Fisici e mentali.

Leggi l’intervista a Michele Placido sul Corriere della Sera

Per saperne di più sul testo Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller

Petrolini infinito

SUNDAY BOOGIE THEATER, 20 Febbraio 2022 –

Una serata dedicata ad Ettore Petrolini, genio “deformatore” del Teatro di Varietà, grazie ad un progetto trasversale alla multimedialità di Enoch Marrella.

Lo spettacolo si apre con un prologo musicale fuori campo, dove Petrolini (nelle vesti di Gastone una delle sue più riuscite creazioni) invita lo spettatore a non fermarsi alla superficie ma piuttosto ad ascoltare bene quello che c’è dentro, quello che c’è sotto.

“È il mio motto – dice Gastone – “sempre più dentro, sempre più sotto”.

Solo ora può prendere forma e fare il suo ingresso l’interprete: un profondo ed ipnotico Enoch Marrella in frac scuro, labbra scure, biacca e brillantina, dalla quale sfugge per un attimo un tirabaci. Un volto ed una voce metamorfici, accompagnati incantevolmente dalle note del Maestro Paolo Panfilo. La comicità irriverente erompe lasciando poi il passo a riflessioni più amare e compassionevoli sulle debolezze umane.

Si susseguono, secondo la moda futurista, versi malthusiani. Uno fra tutti:

Petrolini è quella cosa che ti burla in ton garbato, poi ti dice: ti à piaciato? Se ti offendi se ne freg.

Lui è il re dello sberleffo e della satira pungente e caustica con la quale condanna ipocrisia e malcostume. E non risparmia né popolani, né potenti.

È il dadaista Fortunello che – come disse lo stesso Marinetti – “scava dentro il pubblico tunnel spiralici di stupore e di allegria illogica e inesplicabile”.

Sono un uom grazioso e bello

sono Fortunello.

Sono un uomo ardito e sano

sono un aeroplano.

Sono un uomo assai terribile

sono un dirigibile.

Sono un uomo che vado al culmine

sono un parafulmine.

E’ Salamini: una creazione spontanea e insieme elaborata, sciocca ma geniale, che racconta di “un imbecille di statura ciclopica”.

Ho comprato i salamini e me ne vanto

se qualcuno ci patisce che io canto

è inutile sparlar

è inutile ridir

sono un bel giovanottin

sono un augellin…

A seguire il raccontino di Isabella e Beniamino e subito dopo una veloce trasformazione: il frac lascia la scena ad una camicia e a delle bretelle che si sfidano sull’effetto optical, sublimate da una gorgiera bianca. Sui capelli impomatati cala il sipario di una parrucca nera dal taglio carrè con frangia. È il gran finale in cui Marrella/Petrolini, con il teschio di Yorick sotto braccio, interpreta “il pallido prence danese, che parla solo, che veste a nero”: Amleto.

Ma la singolare analisi della storia “deformata” da Petrolini, osa scioglier ogni dubbio:

Si può essere più afflitti, più lagnosi, più melanconici di Amleto?

Poteva essere felice, no!

Poteva essere amato, no!

Io non ho mai capito che cosa voleva Amleto.

Ma che voleva Amleto?

L’amore è facile

non è difficile

si ha da succedere

succederà.

Sulle note di questa ariosa conclusione anche il pubblico si unisce a cantare in coro, dopo l’invito di un insolito Amleto aperto alla condivisione.

Un lavoro interessante dove Enoch Marrella, complice il Maestro Panfilo, riesce a trascinare lo spettatore: divertendo ed emozionando.

Per maggiori informazioni su Enoch Marrella:

-Premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti 2021: vincitore con lo Studio “Tecnicismi”

-Spettacolo “Sottobanco” per la regia di Claudio Boccaccini

Art

TEATRO VASCELLO, Dal 15 al 20 Febbraio 2022 –

Quali sono i confini della nostra tolleranza? Non quella di cui ci fregiamo in discorsi buonisti e di cui sentiamo inesorabilmente il peso, l’imbarazzo. Piuttosto, invece, quanto siamo capaci di sostenere e quindi di accogliere una scelta dichiaratamente diversa dalla nostra, in nome di qualcosa di più alto, come l’Amicizia e più in generale dell’Arte della vita?

Sentirsi solo formalmente tollerato non procura benessere, piuttosto suscita senso di inadeguatezza e quindi disistima. La cortesia senza coinvolgimento emozionale, regala solo un tangibile disagio. Siamo consapevoli quindi di cosa lasciamo all’altro, quando siamo noi a vestire i panni del tollerante?

Lo spazio scenico è vuoto: solo un telo bianco, posizionato a 45gradi, occupa il lato destro del palco. Entrano i tre attori, ognuno dei quali inserito rigidamente nel proprio spazio di luce. Il quadro bianco, oscuro oggetto del desiderio di Serge, non è (almeno non ancora) il telo che vediamo fisicamente sul palco ma un quadro metafisico che i tre attori ci lasciano immaginare attraverso le loro conversazioni ma soprattutto attraverso le loro reazioni. L’ amico ad avere l’onore di fare la conoscenza dell’opera d’arte, appena acquistata da Serge, è Marc.

Scandalizzato dalla scelta estetica ed economica dell’amico, se ne esce con una forzata risata proterva, cercando aiuto, senza troppo successo, in tre granuli omeopatici di Gelsemium o in alternativa di Ignatia. Rimedi utili per cercare di tollerare ansie da prestazione, con il rischio però che la tolleranza diventi sinonimo di indifferenza: la peggiore delle reazioni umane. Arriva poi Yvane, l’altro amico di Serge, uno che con “il bianco” dovrebbe avere dimestichezza lavorando in una cartoleria. In realtà invece la sua capacità di condivisione dell’emozione dell’amico è resa impossibile da una maniacale necessità di porre completezza e uniformità ad una banale esigenza: quella di trovare qualcosa che manca, il cappuccio della sua penna. Quando finalmente la sua personale esigenza di ordine si è (apparentemente) composta, e può concedersi di regalare attenzione al folle acquisto dell’amico, la sua reazione è di totale accondiscendenza: “se ti fa piacere!”.

Una filosofia di vita che dà per scontata la diversità: non ne coglie, né ne riconosce l’essenza. Non si crea insomma quella speciale curiosità verso l’altro che ti porta a partecipare, fino a diventare complice della sua scelta. Piuttosto a crearsi è una netta separazione tra due possibili, e quindi diversi, atteggiamenti. Separazione enfatizzata anche visivamente dagli incomunicabili corridoi di luce che illuminano e fanno risaltare le zone d’ombra che separano i tre amici. Piccoli, subdoli giochi di potere si insinuano in un sentimento, l’Amicizia, che invece proclama di metterli al bando in nome di un totale riconoscimento della dignità dell’altro.

Legame di importanza vitale quello dell’Amicizia, se Aristotele era solito dire che gli uomini potrebbero fare a meno di qualsiasi bene ma non possono rinunciare all’amicizia. Ma quando invece la curiosa attenzione verso la diversità dell’altro diventa sterile giudizio, che fa dei confini solo elementi di separazione e non anche luoghi dove ci si può incontrare, si crea necessariamente uno stato di necrosi delle relazioni. E pensare, come dice Serge (citando il Platone de Il Simposio) che niente di bello si può creare con la razionalità, con l’ordine, con il simile. È solo dalla vertigine di tensione che si crea tra l’ordine razionale e il divino disordine della follia che nasce la vera bellezza.

E quando i tre amici riusciranno a trovare questa speciale accoglienza l’un l’altro, sperimenteranno di vedersi in un modalità diversa: attraverso la colorata diversità delle ombre di ciascuno. Complice il telo bianco che ora, come in uno specchio, restituisce la bellezza dell’Arte di vivere insieme. In Amicizia. Diversi. Perche Arte, come il titolo dello spettacolo ci suggerisce, è la capacità di andare verso qualcuno o qualcosa.

Informazioni sull’autrice del testo Yasmina Reza

La metamorfosi

TEATRO ARGENTINA, 5 – 27 febbraio 2022 –

Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

La metamorfosi
di Franz Kafka
Mondadori Libri, traduzione di Ervino Pocar –
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con Michelangelo Dalisi, Roberto Rustioni, Sara Putignano / Gea Martire –
Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri –

Due scritte campeggiano sui muri  della casa di Gregor Samsa: “MONDO” (su una parete del soggiorno, dove vive e si arrocca la famiglia) e  “IMMONDO”  (su una parete della camera da letto, dove viene confinato Gregor, l’uomo-insetto). Ma è davvero possibile dividere il genere umano attraverso queste due categorie? Tra chi è “mondo” (cioè ordinato) perché si crede depurato da tutti gli aspetti che creano disordine nella vita e chi invece è “in-mondo” (cioè non-ordinato) e dagli “ordinati” viene additato come repellente, perché diverso da loro e per questo meritevole di essere emarginato? E coloro che si ritengono “mondi” (ordinati e ordinari) lo sono davvero? A cosa serve essere “mondi”, ammesso che ciò si possa davvero concretizzare? 

Lo spettacolo prende avvio creando, al buio, un’atmosfera magico-onirica, preludio alla metamorfosi di Gregor da uomo a bestia (insetto). In scena una camera da letto che ricorda, soprattutto nella costruzione, il dipinto “La camera di Vincent van Gogh ad Arles”, senonché qui la luce, ma soprattutto le ombre, vengono opportunamente giocate sui toni misteriosi del blu cobalto, capaci di donare un carattere fosco e sospetto all’ambiente.

Scopriamo fin da subito che ciascun personaggio è insieme anche voce narrante di se stesso: soluzione che sorprende e diverte. Così come una roteante scenografia regala, di scena in scena, novanta gradi di spazi-tempi diversi e ben legati tra loro.

Merito anche degli interpreti, che riescono a infondere una profonda leggerezza (non ultimo attraverso una continua rottura dei piani d’azione) ad una situazione dominata e bloccata dal disgusto verso il protagonista (un Michelangelo Dalisi, polimorfico per posture fisiche e vocali).

Accogliere i cambiamenti, si sa, non è cosa facile  per gli umani, che per loro natura tendono ad essere molto abitudinari. Troppo, forse, se questa tendenza non riesce a dare spazio anche a eventuali variazioni, proprie di personalità attirate dalla profondità dell’umano.

Che non si accontentano di rimanere in superficie (come i più) ma che anelano a scoprire la propria speciale diversità, inseguendo così una personale realizzazione interiore. Per avvicinarsi alla quale, occorre togliere (qui sì mondare) tutto ciò che sembra importante ma che in realtà è superfluo, perché deviante dalla conoscenza profonda di se stessi. Cosa che inconsciamente Gregor già sapeva, quando soleva dedicare il suo tempo libero ad intagliare il legno: un’arte che consiste appunto nella sapiente rimozione di materia da altra materia, al fine di ricavarne un’opera d’arte. I familiari credono (e in un primo momento anche lo stesso Gregor) che l’essere arrivato a ricoprire il ruolo di commesso viaggiatore sia il massimo della sua realizzazione.

Invece il viaggio potrebbe continuare ma non più come commesso (cioè come subalterno) bensì come imprenditore di se stesso, sotto nuove “forme”. Ma non è semplice. E ascoltare, dal violino della sua amata sorella, l’aria di Händel “Lascia ch’io pianga” è solo l’inizio della fine per Gregor che, piangendo la dura sorte, se ne va, sospirando la libertà.

Un tram che si chiama desiderio

TEATRO QUIRINO, dall’ 1 al 6 Febbraio 2022 –

Delle gambe di donna salgono dal piano terra al primo piano di uno stabile cinereo e squallidamente tetro. Le stesse gambe che per arrivare lì, al quartiere dei Campi Elisi, sono prima salite su un tram, chiamato Desiderio e a seguire su un altro tram, chiamato Cimitero. Gambe che, non solo “geograficamente” attraversano il luogo del desiderio (eros) e quello della morte (thanatos), per arrivare al quartiere d’oltretomba dei Campi Elisi. Le gambe sono di Blanche, una brillante professoressa di lettere, amante di Walt Whitman e di Edgar Allan Poe, recentemente vedova di un marito e di una tenuta nel Mississippi.

Sta raggiungendo, qui, nel quartiere dei Campi Elisi, sua sorella Stella, che la ospiterà per un periodo. Non appena entra in scena, Blanche (una dannatamente divina Mariangela D’Abbraccio) ci si manifesta subito come una donna fuori posto, disorientata perché già dislocata altrove: “non mi reggo in piedi” è la sua prima battuta. Una donna dall’allure di Jackie Kennedy e amante delle camicette bianche, come l’Arcadina cechoviana, con la quale condivide anche un disperato bisogno di piacere agli altri. “Come sto?” chiede a tutti, mettendosi sotto i riflettori ma scegliendo lei sotto quale luce mostrarsi.

La luce delle ombre (rese intensamente dalla metamorfica D’Abbraccio) che continuano a seguirla dalla tenuta Belle Rêve al quartiere dei Campi Elisi: luoghi che di “bello” hanno solo il nome. Quando i riflettori si spengono e lei resta sola, il suo fallace sostegno è l’alcol, il cui tocco ha il potere di arrivarle dritto nelle vene, surrogato di un calore e di un’ebrezza insoddisfabili.

Ma dall’alcol dipende anche Stanley (un magnetico e bestiale Daniele Pecci), il marito di sua sorella: i due si annusano e si riconoscono subito: “io non lo tocco quasi mai” mente lei. E lui, allusivo: “c’è gente che non lo tocca ma che si lascia toccare”. Perché per Stanley una donna “deve mettere subito le carte in tavola”, non solo quelle relative alla tenuta Belle Rêve.

Così come in casa sua non può esistere privacy e le porte o non ci sono o vengono lasciate aperte. Inclusa quella del bagno. Ma la prima a nascondergli cose è proprio sua moglie Stella, che non solo non lo avvisa dell’arrivo della cognata ma nasconde (soprattutto a se stessa) un desiderio malato dietro un altro bel nome: amore. Stella infatti si lascia accecare da una prepotente tenerezza, che gli fa vedere il marito come “un cucciolotto”: “ci si sopporta un po’ ” dice per giustificare la sua dipendenza, nonostante lui arrivi spesso, invasato dalla rabbia, a distruggere quello che prende in mano. E di fronte ai deliri della sorella, si limita a dire: “come sei buffa”. Stella è sfuggente come una quaglia, analogia che la stessa Blanche intuisce ma che poi applica all’ammorbidirsi del fisico della sorella.

Blanche invece riconosce immediatamente il desiderio animale che l’accomuna a Stanley. E ammiccantemente gli si propone con piume e pelli di volpe, chiedendogli di aiutarla ad allacciare bottoni. Ma lui le dirà che con i bottoni non ci sa fare: non sa, a differenza del bottone, unire e tenere insieme due parti. Non sa entrare in relazione.

Così a Blanche non resta che continuare ad affidarsi al buon cuore degli estranei. Come sempre. Per sempre.

Perché il desiderio può essere il luogo dell’inganno ma anche della verità. Quella verità capace di essere generatrice di vita. Quella vita che è desiderio di essere desiderati dal desiderio dell’altro. 


Una regia potente, quella di Pier Luigi Pizzi, capace di tenere incollato lo spettatore per due ore e mezzo. Complici gli attori e la stessa magnificente scenografia. Pecci e la D’Abbraccio hanno interrotto gli applausi per dedicare lo spettacolo a Monica Vitti.

Info sul testo Un tram che si chiama desiderio

Sottobanco

ROMA, TEATRO MARCONI – 30 e 31 Dicembre 2021 /6, 7, 8, 9 Gennaio 2022

OSTIA, TEATRO NINO MANFREDI, Dal 18 al 30 Gennaio 2022

ROMA, TEATRO ROMA, Dal 5 al 13 Febbraio 2022 –

Impazientemente, una giovane donna attende l’apertura di una porta (sipario).  Ci si rivela uno spazio scenico abitato da una commistione di elementi, accomunati dalla potenziale capacità di educare a valorizzare il disequilibrio, come momento indispensabile al raggiungimento di un equilibrio. Da perdere e ritrovare continuamente.

Tra tutti gli elementi scenici,  a catturare l’attenzione è il fondale, attrezzato con un “continuum” di spalliere ginniche, che un estroso uso della luce, fa sembrare altro. Ad esempio, anche una tenda veneziana: aperta da spiragli di luce e di ombre, che lasciano presagire una malinconica ed inquietante freddezza emotiva, tipica di chi finge di vivere curandosi di avere sempre le spalle coperte. Atteggiamento che si conclamerà nel secondo atto, con il consumato giudizio universale degli scrutini.


Dal soffitto scendono degli anelli ginnici, mentre a terra, in proscenio, troneggia, libera anche di essere insolitamente calciata, una palla da basket.  Un nero pallone da calcio,  invece, resta fissamente intrappolato in alto, tra le assi di una delle spalliere. Quasi a simboleggiare atteggiamenti intrepidi, in un caso, e  mortalmente protettivi, nell’altro. Questo spazio scenico, dedicato all’educazione fisica, viene contaminato da cattedre, sedie e schedari: luoghi comuni di un’educazione della mente e dello spirito.

La giovane donna che, una volta entrata, continua ad agitarsi turbata e disorientata,  intuiamo essere una prof: la prof. Baccalauro. Un misto di ordinata e sapiente scompostezza, come lo stesso cognome suggerisce. Così come i suoi piedi: una donna che fatica ad avanzare e tiene un piede orientato verso il futuro e l’altro a chiudere parzialmente questa apertura. Ma, nonostante tutto, va e comunque si apre ad affrontare la lotta insita in ogni dialogo (forse non a caso indossa delle Converse). E nei momenti più critici, infila in bocca una matita come si farebbe con un coltello: tra i denti. Denti che però usa anche per sabotarsi le unghie, preziosi artigli con i quali lottare. Indossa un piccolo scaldacuore bianco, che subito toglie: quasi delle ali, di cui non riesce a tollerare l’insostenibile leggerezza.

A raggiungerla è il cheguevariano prof di Lettere Cozzolino, che entra in scena con il suo elmo bianco ed un mantello verde. Armatura che, una volta entrato apparentemente depone, pronto a combattere  ammuffiti pregiudizi e a valorizzare nuove e ariose modalità di espressione. Magari anche un po’ sbagliate ma proprio per questo creative. Come quella di Cardini, un alunno che affronta la sua trasformazione adolescenziale nei panni di una mosca. E domandandosi chi, in paradiso, lucida l’aureola ai santi. O come quella di Katia Sbilenchi che, spaventata dai dubbi della crescita, cerca sostegno nelle braccia sbagliate. O come Germani Ursula che, come una barbara,  ama sfidare il pericolo ad alta velocita’.

A mano a mano lo spazio si popolerà di professori, che non faranno che ammonire i due, impavidamente maldestri colleghi, a fare attenzione, ad usare prudenza, a non esporsi troppo. Per non perdere quell’equilibrio che solo un arido rispetto delle regole sembra regalare. Aridità che pensano di colmare bevendo succhi di frutta, comodamente confezionati ma troppo caldi.  Dai quali però continuano a dipendere, nell’illusione di “raccogliere punti fedeltà”. Perché è preferibile schierarsi in nome di falsi legami che accomunano, piuttosto che essere additati per il provocatorio coraggio di togliersi le proprie scarpe per entrare in quelle di un altro. 

Uno spettacolo che, solleticando continue risate, invita a mettersi in gioco. Il miglior augurio per chiudere un anno e aprirsi al futuro. Perché uno spettacolo deve saper entrare come un liquido nelle fessure e prendere la forma di ciò che manca. Facendoci ridere e piangere; pensare e sognare. 

La foto del carabiniere

PROSSIME RAPPRESENTAZIONI:
20 Febbraio 2022 Teatro Taj Lucia – Civitavecchia (RM)
26 Febbraio 2022
Teatro del LagoBracciano (RM)

(Leggi il comunicato ANSA)

Si può parlare della bellezza? Dicono di no. Perché la bellezza sfugge, non si lascia concettualizzare. E ci punge. A volte ci trafigge. E ci incanta, sempre. Partecipando alla rappresentazione di questo spettacolo, i sensi vengono continuamente solleticati da istanti di pura bellezza. Proverò a parlarne, sfidando il rischio di tradirla: perché la bellezza ci vuole indifesi, solo spettatori. Solo così può entrare e farsi strada: meravigliandoci, incantandoci. Lasciandoci poi, inermi.

C’è bellezza nella profonda e potente leggerezza con la quale Boccaccini ha tradotto e condiviso un’esperienza così intima e così eccezionalmente quotidiana. Come un cantore professionista, un aedo, ci rapisce e ci guida attraverso “luoghi”. Luoghi dell’anima. Ci fa entrare in una geografia emotiva (con epicentro Torre in Pietra), in un intimo viaggio sentimentale, in una mappatura dei costumi. Di quel periodo ma non solo. “Perché i padri sono Paesi”, da cui si parte e dove si desidera tornare. Anche, anzi soprattutto, se sono stati loro a mettere una distanza. La bellezza dell’appartenenza chiede comunque di essere celebrata. E Tarquinio, così infiammabile e insieme così capace di misericordia, lo fa. E trasmette l’imprinting.

E poi ci sono le Madri, come Valeria. Che sanno fare tutto contemporaneamente. Con la grazia e la resistenza di un discobolo, con in mano il più grande (e quindi il più buono) dei cocomeri. E con le quali è più facile confidarsi, prima che l’imprinting paterno culmini con il primo discorso fra uomini.

C’è bellezza nelle nitide foto posturali che immortalano i gesti: offerte su un vassoio, come farebbe un cameriere di Fassi. Perché la vita va bevuta: condividendo a volte “un bicchierino”, a volte “un calice a Mariù”. Perché “un giorno si nasce e un giorno si muore”.

C’è bellezza nella sacralità delle cerimonie: quelle istituzionali, come lo sposalizio o la commemorazione, diventano scenari di qualcosa di diversamente sacro, ovvero le tappe della rivelazione dell’enigma di questa presenza favolosa. All’interno delle quali dapprima un figlio scopre il padre “salvatore” del ragazzo con la lambretta e successivamente viene messo a parte di un discorso per la prima volta “da uomo a uomo”. Cerimonia questa, suggellata dal rituale del fuoco.

C’è bellezza nella musica scelta per accompagnare la rievocazione e insieme la rivelazione della passione di Salvatore D’Acquisto: come una pioggia rafficata, a volte uno stillicidio musicale. Il tutto attraversato dalla dolcezza acuta del violino. E poi, interminabili nuvole di fumo. D’incenso. 

C’è bellezza nell’auto nuova di Tarquinio, vista come un’ inquadratura in soggettiva e vissuta come platea del palcoscenico della via. Quella vera, immortale e quella che scorre e si consuma. Quasi un’immagine uscita da un manifesto di Jaques Tati. 

Perché la bellezza non ha un fine esterno: è di per sé utile. Fa vivere. E in quanto tale, forse, è la legge segreta della vita. Grazie allora a chi mette la propria vita, la propria esperienza e il proprio talento a servizio degli altri, permettendoci di fare esperienza della bellezza della vita.

Questo spettacolo prende la forma di un dialogo: con il pubblico, certamente ma anche con le luci e le ombre interiori dello stesso aedo Boccaccini. Per le quali viene ideato uno speciale disegno luci, necessario per illuminare e celare un luogo diverso: quello custodito nel fondo dei “pantaloni a cica”. Esposto non solo sul comodino ma anche sul palco. Un “luogo” complicato da raggiungere (come la pera in fondo alla bottiglia) e dove Boccaccini ci ha permesso di entrare. Di specchiarci. E di scoprirci, ognuno a suo modo, “somiglianti” a lui. Come lui a suo padre.

TEATRO VITTORIA dal 5 al 10 ottobre 2021