Tre sorelle

TEATRO INDIA, dal 9 al 14 Maggio 2023 –

Che cosa significa vivere?

Lentamente avanzare nel buio e nel silenzio. Ogni parto, non solo il primo – tante infatti sono le occasioni in cui si può rinascere – implica questo passaggio nel buio: é il “venire alla luce”.  

E così inizia lo spettacolo: con il parto mistico delle tre sorelle.

Lentamente, a fatica, un sipario di buio inizia a fendersi. Sono mani che cercano e aprono una fessura, quasi come il “Concetto spaziale” di Lucio Fontana.

Sono mani che danno vita ad un rito: scomposto, ancora non codificato. Sono mani che tagliano il buio creando, con il primo spiraglio di luce, “un effetto stroboscopico”.

Sono mani che si uniscono e si separano, quasi alchemicamente, creando un nuovo spazio e un nuovo tempo. Sono il linguaggio più primitivo, più efficace. Sono la parola prima della parola. Sono mudra che creano nuovi collegamenti energetici tra i vari livelli di percezione. 

“A Mosca tornerei” : le prime parole. Il primo desiderio. Confuso. E allora le tre “ri-nate” sorelle tornano a consultare le loro mani, come oracoli da decodificare per conoscere se e quando si tornerà a Mosca. 

È nel mondo ancestrale del rito che le “Tre sorelle” dei Muta Imago riescono a trovare una nuova condizione di esistere, nella quale l’assenza dei principi della logica, che permea comunque anche il loro mondo “reale”, riesce qui, nel sacro, a far loro assaporare l’ebrezza e l’angoscia del sentirsi libere di sperimentare di essere se stesse.

Riccardo Fazi (drammaturgo e sound design) e Claudia Storace (regista) de i Muta Imago

In questa nuova dimensione, riescono a spogliarsi dalla sottomissione apatica o meccanica al “reale” fino a contattare finalmente il mondo dell’istintualità. In questo nuovo campo energetico i loro corpi “desiderano” e osano perdere la loro forma rigida per sciogliersi in una danza singolare e plurale. Maschile e femminile.

Anche la pelle più esterna, l’abito, perde i connotati del testo originale; inclusi quelli cromatici del blu, del nero e del bianco, che le irrigidivano in “ruoli” e in una nazionalità ben precisa (i tre colori compongono la bandiera estone).

Qui, prima di tutto, le “Tre sorelle” sono creature in continua metamorfosi (inclusa quella dal maschile al femminile) vestite da abiti disponibili a prendere le forme che il loro sentire, di volta in volta, desidererà assumere.

Il colore è un volutamente indefinito blu elettrico: una sfumatura insieme eterea e abbagliante, divenuta il colore dell’elettricità nell’immaginario comune, dove le molecole di azoto e di ossigeno si eccitano con violenza, rilasciando fotoni visibili ad occhio nudo.

In questa nuova dimensione possono essere “demiurghe” di luce e quindi di nuovi spazi. Magici. Dove la morte non viene più anelata come fuga dalla disperazione impotente ed apatica dal reale ma come preludio ad una nuova ri-nascita. Le “Tre sorelle” se ne vanno dal fondale. Buio. È di nuovo una fenditura a permettere il loro passaggio in un nuovo spazio. Luminoso.

Questo interessantissimo lavoro di ricerca dei Muta Imago, creando nuove sinapsi tra immaginazione e realtà, ci regala una rilettura ipnotica e magica dell’originale cechoviano, complici un uso della luce e del suono davvero ammaliante. Che apre ad una diversa percezione del tempo.


Leggi l’intervista ai Muta Imago su Harpers Bazaar

Fontana Project

TEATRO VASCELLO, dal 26 al 30 Aprile 2023 –

In un efficace dosaggio di fedeltà e necessario tradimento dell’eredità di Lucio Fontana, la compagnia di arti performative “NoGravity” porta in scena al Teatro Vascello un visionario prender vita nel tempo dell’opera-simbolo di Fontana “Concetto Spaziale Bianco”. Geniale idea con la quale Fontana vinse il primo premio per la pittura alla Biennale del 1966. 

Lucio Fontana, Concetto Spaziale Bianco

Nell’immaginario collettivo Lucio Fontana è “l’artista dei tagli” ma queste opere furono il risultato finale di una lunga e complessa ricerca: quella di un uomo che cambiò il corso dell’arte contemporanea, superando le limitazioni legate alla bidimensionalità della tela.

Per qualche motivo, un incantesimo forse, le suggestioni che questo spettacolo suscita portano lo spettatore a “rileggere” l’artista. Ad averne curiosità. Ad averne cura.

Lucio Fontana, pittore, ceramista e scultore

Sulla scia della grande tradizione barocca italiana del teatro delle meraviglie, l’artigiano-filosofo teatrale Emiliano Pellisari (fondatore della compagnia NoGravity, diretta insieme a Mariana/P.) progetta e costruisce un apparato straordinario per lo “Studio su Lucio Fontana”, applicandolo alla messa in scena per il Teatro Vascello.

E incanta il pubblico: proprio come si usava fare nelle corti europee del Cinquecento e del Seicento.

Emiliano Pellicani e Mariana Porceddu

Al centro della scrittura filosofica del “teatro delle meraviglie” della NoGravity sta il concetto scenografico e drammaturgico di “specchio”. Un modo di “guardare” che apre alla molteplicità dei punti di vista. E quindi alla “relazione”, all’inclusione, al conoscere e al conoscersi attraverso l’ “Altro”. Ma soprattutto lo specchio è quel “mezzo tecnologico” di cui parla il movimento artistico dello Spazialismo (fondato da Fontana nel 1946): una nuova forma di linguaggio, prodotta da nuove invenzioni. Perché fine della tecnologia è essere lo strumento attraverso il quale l’homo faber può controllare gli elementi naturali. Esplorando, e poi superando, il concetto di “limite”, così centrale nella ricerca di Lucio Fontana.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

Qui al Teatro Vascello, ci si trova, infatti, di fronte ad uno spazio teatrale dove si annulla la fisica della realtà per dare forma ad un esperimento teatrale sognato ad occhi aperti. Fedele a quanto dichiarato da Lucio Fontana nel “Manifesto Tecnico dello Spazialismo” del 1951 (dove si dichiara, nello specifico, che il movimento è la condizione base della materia) la NoGravity utilizza il movimento per dare vita al tempo ma soprattutto per aiutare lo spettatore a percepirlo.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

In una suggestiva relazione tra luce, tempo e spazio, proiettori wood aprono la scena. Dal 1948, infatti, la luce diventa la tecnica più importante per Fontana, in quanto capace di aprire alla percezione dello spazio: da quella al neon, all’effetto delle luci indirette; dalla retroilluminazione alla luce radente, fino ad arrivare alla luce di Wood.

Alla luce wood si mescola una sorta di “racconto onomatopeico” che conduce lo spettatore a rendersi disponibile ad esplorare una dimensione da rituale magico; così come accade ai corpi, che si intravedono dietro la tela: impegnati a sondare il limite della “membrana” bianca.

La “sperimentano” con tutto il corpo, in una sorta di conoscenza tattile. Delicata, frusciante. Senza fretta. Fino a che uno dei due corpi trova il varco del taglio. E da lì, ebbro di un nuovo spazio-tempo, si espande. E come in una croce, si libra e ne gode. È un corpo femminile (una elegantissima Mariana Porceddu): come Eva è lei la prima ad osare in questo nuovo “paradiso”.

Poi è il momento dell’uomo che trasforma l’ingresso (il taglio) in un “habitus” per la donna. Prende avvio così un conoscere e un conoscersi come in una danza, che dà vita a sempre nuovi spazi, nuove forme. Un continuo origami di maschile e di femminile, separati e fusi. Una rete di sempre nuove connessioni.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

In questo fruire fisico e spirituale dell’Infinito, si rende immanente l’intervento trascendente di un coreografo demiurgo: Emiliano Pellisari, che rompe i piani della rappresentazione, permettendo anche a noi del pubblico una partecipazione immersiva. Attivi e passivi nella costruzione di nuove geometrie.

Ma il demiurgo Pellisari è anche colui che taglia la tela e nel farlo continua il processo di creazione e di conoscenza, che vede la forza dilaniante della creazione restare sempre unita alla tentazione continua a tornare indietro. A morire. Per poter rinascere. Come avviene nella vita.

E nel teatro: ora infatti sembrano prendere vita, per l’attività poietica dei corpi sulla tela, dei sipari teatrali che, come cornici fluide, rimandano a ” I Teatrini” di Fontana (1964-1966).

Un esemplare de “I Teatrini” di Lucio fontana

Poi nuovi suoni, più materici, sembrano condurci in sculture d’intrecci d’amore, così simili alle ceramiche di Fontana.

Lucio Fontana, “Ballerina” 1952 ceramica policroma smaltata 

Ma basta una torsione, un voltarsi dei corpi, per uscire da questa nuova cosmologia.

Tornando con i piedi per terra. Ma con gli occhi ancora pieni di Infinito.

Una meraviglia di spettacolo.