Fantasme

TEATROSOPHIA, dal 23 al 26 Febbraio 2023 –

In un suggestivo ambiente glaciale di stalattiti e stalagmiti (la scena è stata curata da Enzo Piscopo) si individuano, seppur mimetizzate, tre donne “freezzate”, congelate in un fermo immagine. Attendono la nostra attenzione. Una volta accordata, all’udir le prime note di un motivo musicale, come libere ora dal sortilegio dell’incantesimo che le voleva invisibili, si sciolgono. E si rianimano.

Una scena iniziale dello spettacolo “Fantasme” di Guido Lomoro

Sono fuori da ogni coordinata spazio-temporale e prima di sentirsi a loro agio nell’abitare questo nuovo ambiente, lo perimetrano tutto. Impavide. Sbilanciandosi anche oltre il confine che separa il palco dalla platea. Affamate di entrare finalmente nello sguardo degli altri. Si muovono come in una danza: ora lieve, ora densa. Sempre, carica di una potente espressività.

Maria Concetta Borgese

Sembrano dover recuperare qualcosa che hanno perso. Che è stato loro sottratto. Si guardano e s’intendono, senza parlarsi. Ormai complici, si muovono come in simbiosi: sono tre ma in un’unica entità. Una di loro inizia a chiamare il suo uomo: “Veturio ! ” e le altre due ne sostengono l’accoramento, dando forza alla sua esigenza di rivalsa. E ne ripetono il nome, come fosse un’eco. Come un coro di una tragedia greca.

Silvia Mazzotta e Marta Iacopini in una scena dello spettacolo “Fantasme”

Sono fantasme, spettri di persone defunte, che dallo stereotipato lenzuolo bianco non si lasciano più coprire. Piuttosto ne fanno una veste che le riveli. Non hanno negli occhi l’ira vendicatrice di Erinni: a loro interessa non essere invisibili, essere ricordate. Per far sì che ciò che è loro accaduto non si ripeti in un’assecondante e rassegnata normalità.

Marta Iacopini

Loro urgenza è dare vita a nuove occasioni per ricordare propositivamente il proprio valore di donne che hanno saputo amare. E amarsi. E far sì che “il danno” da loro subito trovi giustizia nell’essere da noi ascoltato e fatto valere con il nostro esempio. “Chiunque io sono, ricorderò chi sono stata !” – è il loro motto.

Ma è anche un’esortazione alla sorellanza: come patto sociale, etico ed emotivo. Consapevoli che insieme si è più forti. E che solo così è possibile avviare un vero e proprio cambiamento sociale. “Quanto poco si conoscono le donne !” – ripetono come in un loop le fantasme. 

Silvia Mazzotta

E si commuovono. E ci commuovono. Dopo averle seguite attraversando con loro le regioni dell’anima della passionalità, della generosità, della frustrazione, del disgusto, della rabbia, della dimenticanza fino alla prepotente esigenza di una rivalsa, facciamo tappa nella regione della solidarietà. Riconoscendoci in tutta la nostra maestosa fragilità di creature che sanno commuoversi. Insieme. Per poter dar vita a nuovi inizi.

Silvia Mazzotta, Marta Iacopini e Maria Concetta Borgese in una scena finale dello spettacolo “Fantasme” di Guido Lomoro

Molto interessante la scelta del regista Guido Lomoro, la cui cifra stilistica si esprime costantemente in un’attenta e appassionata indagine della natura umana, di proporre una riduzione teatrale dell’avvincente testo di Claudio Marrucci e Carmela ParissiFantasme. Da Messalina a Giorgiana Masi“, focalizzando l’attenzione registica su una rosa di 9 esempi femminili (rispetto ai 25 del testo originale) che continuano a parlarci e ad illuminare le nostre esistenze.

Guido Lomoro, il regista dello spettacolo “Fantasme”

Soprattutto grazie alla generosa accoglienza e “visibilità” riservata loro dalle tre appassionate interpreti sulla scena: Maria Concetta Borgese, Marta Iacopini e Silvia Mazzotta. Impetuose e piene di grazia. Capaci di restituire vibrante esistenza a creature troppo spesso avvolte nel ghiaccio della dimenticanza.

Un Amleto

TEATRO GOLDEN, dal 14 al 19 Febbraio 2023 –

Le notizie da Elsinore arrivano dalla radio, voce narrante dell’antefatto. Una geniale cronaca giornalistica che fa tornare alla mente “La guerra dei mondi” (1938) di Orson Welles. 


È un adattamento, quello immaginato dalla regista Loredana Scaramella e portato in scena da attori di qualità ed esperienza accanto a un gruppo di giovani interpreti diplomati alla Golden Academy, che trova un interessante equilibrio tra il rispetto verso un’essenziale fedeltà e l’apertura a un legittimo tradimento.

Giacomo Faccini (Amleto ) e Antonio Tintis (Polonio) in una scena dello spettacolo “Un Amleto”

Farne una “cronaca”, cioè l’esposizione di uno dei fatti giornalieri di un Paese (incluso l’intreccio delle voci che corrono) lo rende “carne e sangue” del nostro inconscio collettivo. Perché, come sosteneva Harold Bloom, Shakespeare “inventa la psicanalisi”.

Antonio Frazzoni (Orazio) e Giacomo Faccini (Amleto) in una scena dello spettacolo “Un Amleto”

Efficacissima la scelta di rinunciare alle scene. Unici oggetti: un pianoforte nero a coda (in un angolo) e due sedie “viennesi”. Proiezioni fanno vivere, quando serve, il fondale. Ma tutto il vasto “globo”, prima di dissolversi (alla fine della rappresentazione) è riuscito a “levarsi al fulvido cielo dell’immaginazione”.

Mauro Santopietro (Spettro) e Giacomo Faccini (Amleto) in una scena dello spettacolo “Un Amleto”

Non è stato chiesto invece alla nostra “fantasia di pubblico di vestire di sfarzo” i reali: lo erano già, anche se contemporaneizzati. Deliziose coreografie hanno regalato un’elegante energia giocosa alla “rutilante azione”.

Mauro Santopietro (Claudio/Spettro), Giacomo Faccini (Amleto) e Laura Ruocco (Gertrude)

La sinergia della recitazione densa e profonda dei professionisti commista a quella fresca e talentuosa dei neo diplomati della Gold Accademy riesce a farci immedesimare nelle dinamiche di questa famiglia: archetipo, carne e sangue di ogni famiglia. E quindi dell’intera umanità.

Matteo Milani (Laerte ) e Angelica Pisilli (Ofelia)

Su tutti, alcuni “quadri” restano impressi nel ricordo: in primis quello della morte di Ofelia, destinata a spingersi in cima a un dirupo (umano) per poi cadere e lasciarsi trascinare da un inconsolabile fiume (umano). Ma anche l’insolito e accattivante party per il matrimonio di Gertrude e Claudio; un Polonio quasi divertente nel suo “efficientismo”; il complice rapporto fraterno tra Laerte ed Ofelia… E molto altro ancora.

Giacomo Faccini (Amleto) e Laura Ruocco (Gertrude) in una scena dello spettacolo “Un Amleto”


L’amalgama tra realismo e immaginazione è risultato alchemicamente così efficace, che molti spettatori non si sono accorti della finzione. Come accadde nella trasmissione radiofonica di Orson Welles.

Giacomo Faccini (Amleto) e Angelica Pisilli (Ofelia) in una scena dello spettacolo “Un Amleto”

DAIMON – L’ultimo canto di John Keats

TEATROLOSPAZIO, dal 2 al 5 Febbraio 2023 –

Prendendo posto in sala, lo troviamo seduto sul palco. Di spalle, su un cubo di marmo. Legge un’iscrizione: la “sente”. Non parla, così sembra. Ma le parole più belle sono quelle che naufragano nel silenzio. Si sta lasciando guidare dal suo “daimon”: lui sa cosa è più fertile per “fare anima” . Di Gianni De Feo fin da subito ci arriva la fascinazione della sua “percezione”. La sentiamo.

Gianni De Feo nell’intro allo spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Poi si alza, si volta e dà inizio alla sua seducente narrazione: un ripercorrere a ritroso i momenti del palesarsi, subdolo o manifesto, di un singolare “daimon”. 

In perfetta corrispondenza con il “fare anima ” di James Hillman, De Feo, che oltre ad interpretare l’appassionante testo di Paolo Vanacore ne ha curato anche la regia, dà vita ad un meraviglioso montaggio pluri-disciplinare collegando ed enfatizzando il potere della narrazione a contributi artistici di varia natura: dalla musica alla pittura; dal canto alla danza.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

La musica è quella che si immagina esca da una radio degli anni ’20 e viene scelta per fare “da tappeto” alla narrazione, seguendone simbolicamente i diversi climi. Per la pittura, De Feo sceglie di proiettare delle tele del pittore Roberto Rinaldi: davvero di forte espressività. Il canto e l’accenno a degli eleganti passi di danza arrivano con l’entusiasmo di un’amabilissima sorpresa: De Feo rivela dei colori vocali molto interessanti e dà prova di un’intensissima interpretazione avvalendosi di un accattivante uso delle mani che, in alcuni momenti, ricorda la magia delle “mudra”.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Come nelle poesie di Keats, De Feo riesce ad evocare gli oggetti nelle sue molteplici qualità mediante l’accostamento di diverse sfere sensoriali. In questo modo le immagini risultano così vivide che non solo se ne immagina la fisicità ma si riesce a partecipare della loro vita intima.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Il testo di Paolo Vanacore immagina di ripercorrere il riappropriarsi della vocazione, “dono dei guardiani della nostra nascita”, da parte di un bambino che nasce dall’ondivago fluttuare delle onde di “un hotel di passaggio” di Atlantic City e che lascerà un’indelebile traccia di bellezza sulla Terra.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

È un teatro di narrazione colmo di intima poesia, quello in cui s’immerge Gianni De Feo. Rompendo continuamente i piani, quasi fossero onde da fendere. E ci trascina con lui. Ne “sentiamo” il carisma, ne apprezziamo il ritmo, il “farsi anima” dei gesti. Dei silenzi. Della parola. Non si può non percepire infatti la bellezza con la quale De Feo riesce a riprodurre le figure di suono (specie assonanze e suoni vocalici) che abbondano nei versi di Keats e che donano musicalità e grande freschezza espressiva. Particolare attenzione pone De Feo all’utilizzo delle vocali che, così come amava Keats, sono impiegate alla stregua di note musicali, separando quelle chiuse da quelle aperte. E, così sedotti da tale bellezza, non possiamo non “lasciarci andare”. Naufragando. Paghi del nostro esserci venuti a cercare. 

Pupo di zucchero

TEATRO ARGENTINA, dal 18 al 30 ottobre 2022 –

Desiderare è l’ingrediente segreto per “far lievitare” la vita?

È la notte del 2 novembre, una notte magico-ancestrale dove un confine, solitamente impermeabile, cambia natura e rende possibile la comunicazione tra vivi e morti. Un’antica tradizione del meridione vuole che i vivi preparino dei particolari dolci, come il pupo di zucchero, per il ritorno dei defunti della famiglia alla propria casa, la notte che precedere la giornata del 2 novembre. All’arrivo del giorno, saranno poi i vivi a mangiare quei dolci preparati per i morti, perché si credeva che fosse come se ci si “nutrisse” simbolicamente dei trapassati stessi.

Il pubblico prendendo posto in sala non può non notare che il sipario è aperto e il palco vuoto. Anzi, a ben guardare, sul fondo della scena, al centro, campeggia un oggetto scenico: un piccolo tavolino di legno. Perché? Sarà mica, che lo spettacolo è già iniziato e che gli attori lo hanno lasciato per noi del pubblico, che nel rituale magico del teatro, come i defunti, attraverseremo quel confine che solo nella notte che precede il 2 novembre (quella appunto che sta per andare in scena) entrano in un’ancestrale comunicazione con i vivi (in questo caso gli attori)? In una sorta di teatro nel teatro, dove il piccolo tavolino può essere il posto dove troveremo i dolci destinati a noi ?

Buio in sala. Scampanellii materializzano magicamente un uomo che si siede (il disegno luci raffinatissimo, quasi piccoli raggi che penetrano il confine tra le due dimensioni, è del light design Cristian Zucaro) e appoggia proprio su “quel tavolino” il suo pupo di zucchero, nell’attesa che lieviti. Il perdurare degli scampanellii fa addormentare l’uomo. Ma è davvero un sonno il suo? O non sarà forse un diverso stato di coscienza che gli permette di connettersi con la dimensione dei suoi cari defunti?

Li desidera, lui. Li ricorda. E vorrebbe che fossero ancora con lui. Almeno questa sera, che si sente così solo e desidererebbe “stutarsi come una candela”. Sembra quasi di sentirlo proseguire dicendo: “Spegniti, spegniti breve candela! La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena, e poi cade nell’oblio. La storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e foga e che non significa niente” (W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena V).

Ma dalle sue spalle prendono vita, poco alla volta, tutti i suoi defunti. In primis, le adorate e inseparabili sorelle Viola, Rosa e Primula, cariche di un’energia potentissima che subentra alla loro docilità, ora come allora, nell’atto dello sciogliersi i lunghi capelli.

Si librano così in danze della grazia di una “Primavera” botticelliana, che però, com’è nella natura stessa della primavera, non escludono momenti di evidente sensualità. Anche la mamma, stanca e curva, in determinate occasioni successive a lunghe attese, cambiando d’abito (e quindi di pelle) si liberava del peso del tempo scatenandosi in balli sfrenati.

Balli che, come l’apparente e ripetuto addormentarsi del protagonista, sono stati di connessione ad un’altra dimensione. Sacra: trascendente nella sua immanenza. Di ritualità, di figure geometriche simboliche (come quella del cerchio), di canti melanconicamente ammalianti, di balli e vorticosi volteggi, di luci che svelano per sottrazione, nonché di lustrini e cenere è intrisa tutta la rappresentazione potentemente visionaria di Emma Dante.

Che culmina nello scenografico cimitero delle carcasse dei defunti (le superbe sculture sono di Cesare Inzerillo) dove la Dante ci parla della morte con il fascino sublime delle diverse declinazioni del desiderio. Anche il protagonista, a qualche livello, lo sa e non a caso si è preparato a questa festa visionaria del 2 novembre “cambiando pelle”: indossando cioè panciotto e cravattino.

Ma qualcosa non funziona: l’impasto non lievita, non si rianima. “Avrò dimenticato qualcosa?” – si chiede. E scoprirà, così come noi del pubblico, il potere alchemico della “separazione”. 

Il corpo attoriale fa brillare le tenebre, grazie all’incredibile traduzione delle continue evoluzioni del ritmo della parola in gesto.

La commedia degli errori

GIGI PROIETTI GLOBE THEATRE, Dal 15 al 31 Luglio ore 21.00 (dal mercoledì alla domenica) 

di William Shakespeare

Regia di Loredana Scaramella 

Traduzione e adattamento Loredana Scaramella 

 Produzione Politeama s.r.l.

Come rendere la poliedricità della vita ma soprattutto come suggerire un “giusto” modo per inserirvisi? Senza cioè lasciarsi irrigidire dal naturale generarsi degli equivoci o all’opposto senza perdervisi sterilmente dentro. Ad esempio, riscoprendo linguaggi più in sintonia con il ritmo della vita, quali la musica, il canto, la danza e più in generale il linguaggio del corpo.

Questo sembra emergere dall’adattamento dell’eclettica regista Loredana Scaramella, che mette in scena l’elogio della Body percussion. Il ritmo, si sa, è un’ ottima modalità per connettersi con gli altri: può aiutare l’integrazione in un gruppo ed è un ottimo canale per veicolare emozioni. Perché  il “gesto” non è solo movimento e suono, ma anche un insieme elaborato di emozioni e di sensazioni.

Loredana Scaramella ambienta, anzi si potrebbe dire “orchestra”, questa caleidoscopica commedia di Shakespeare in una frizzante Efeso dei primi del Novecento. In scena un caffè, i suoi avventori che partecipano e commentano agli eventi ( in una sorta di teatro nel teatro ) e la sua orchestrina impregnata di atmosfere swing. Perché vivere significa saper oscillare e poi prendere lo slancio, come suggerisce la stessa etimologia della parola “swing”. Ecco allora che anche gli stessi attori sanno come far risuonare i propri corpi attraverso la Body percussion. Battere le mani sul proprio corpo, schioccare le dita, battere i piedi, sono solo alcune delle potenzialità sonore del nostro corpo per produrre musica ed entrare in sintonia con l’altro.

Al piano superiore della scena, le stanze della casa di Antifolo di Efeso, da dove si strugge di malinconia e velenosa gelosia sua moglie Adriana (un’appassionata Carlotta Proietti). Dolore che sublima con il canto o suonando il kazoo e, solo per impazienza, con l’alcol. 

La regista sceglie di aprire e chiudere lo spettacolo con una variante del “Miserere”: resta la musica cambiano le parole, che qui diventano “Buona notte”. Etimologicamente “notte” significa “sparire, perire” e farla precedere dall’aggettivo “buona” mantiene sì il valore di un’ invocazione alla misericordia ma forse più laico. Perché è la compassione, la comunione intima alla sofferenza dell’altro a rendere la vita più intensa. Una comunione difficilissima ma che, se attraversata, può portare ad un’unità profonda e pura, forse più di ogni altro sentimento che leghi gli umani. Un tipo di amore incondizionato, ponte per una intimità non solo di sofferenza, ma anche -e soprattutto- di gioia vitale e di entusiasmo.

Perché “l’altro” siamo noi.

Gli attori brillano per una versatilità vivissima e per un accordo sinfonico, fin nei contrappunti solo apparentemente minori. 

Curatissimi e davvero efficaci i costumi di Susanna Proietti.

Una rappresentazione crudele e meravigliosamente affascinante della vita, dove niente è “nostro” .

Eppure…

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Interpreti

(In ordine alfabetico)

Primo mercante, Guardia     DONATO ALTOMARE 

Una Ragazza Leggera  LARA BALBO 

Professor Pinza,esorcista            GIULIO BENVENUTI 

Solino, Duca di Efeso   GABRIO  GENTILINI 

Luciana  BETTA MANDALARI   

Balthazar, mercante  ROBERTO MANTOVANI 

Antifolo di Efeso MATTEO MILANI 

 Dromio di Siracusa  LUCA NENCETTI 

Angelo, orafo  IVAN OLIVIERI 

Emilia, Badessa a Efeso  LOREDANA PIEDIMONTE 

Adriana   CARLOTTA PROIETTI 

Egeone, mercante di Siracusa   CARLO RAGONE 

Luce  LAURA RUOCCO 

Antifolo di Siracusa          MAURO SANTOPIETRO  

Cantante caffè,  TONI SAPIO 

Secondo mercante  ANTONIO TINTIS 

Dromio di Efeso  FEDERICO TOLARDO 

                                             Musicisti

chitarra                                                     DANIELE DE SETA  

violino                                                       ADRIANO DRAGOTTA

clarinetto ELEONORA GRAZIOSI  

batteria                                                     DUCCIO LUCCIOLI  

contrabbasso                                          STEFANO MARZOLLA 

Movimenti di scena                                 ALBERTO BELLANDI

Coreografie                                              LAURA RUOCCO 

Musiche originali                                      MIMOSA CAMPIRONI

Collaborazione agli arrangiamenti       ADRIANO DRAGOTTA 

Costumi                                                     SUSANNA PROIETTI 

Scene                                                        FABIANA DI MARCO 

Aiuto regia                                                FRANCESCA VISICARO 

Aiuto coreografo   GIULIO BENVENUTI  

Disegno luci                                              UMILE VAINERI 

Sound designer                                        DANIELE PATRIARCA 

Carolyn Carlson – Bill Viola

PALAZZO BONAPARTE, 23 Giugno 2022 –

(Foto di Laurent Paillier)

La “Poetessa della danza” Carolyn Carlson ama definirsi “una nomade”. Vedendola, anche solo per la prima volta, non si può non percepire il suo muoversi lieve sulla terra e il suo cogliere la vita che serve alla vita, restando vicina alla saggezza della bestia intelligente che vive con la natura. Ignorante per essere poeta, immersa in un linguaggio che diventa rappresentazione simbolica di una realtà che pulsa energia. Come un fascino di gioventù. Vitalità magnetica.

Carolyn Carlson si è creata negli anni uno stile personale, libero da forme troppo accademiche: capace di trasmettere ogni vibrazione interna attraverso un perfetto controllo del movimento. Le sue coreografie, che nascono da ricordi, sogni, o dalla natura che di volta in volta la circonda, generano un mondo fatto, soprattutto, di emozioni e sensazioni. 

Ieri sera, avvalendosi della simbiotica sintonia e dell’originale contrasto a cui riesce a dare vita assieme alla danzatrice solista della “Carolyn Carlson CompanySara Orselli e sotto il coordinamento della sua storica collaboratrice e coreografa Simona Bucci, la Carlson ci ha condotti in un’esperienza unica. L’immersione, insieme apollinea e dionisiaca, delle artiste nelle video opere di Bill Viola, uno dei massimi esponenti della videoarte mondiale, come per un incantesimo ci ha reso tutta la potenza dell’ “essere nel tempo”.

La geniale intuizione di Bill Viola, del provarsi nel dilatare l’ “istante”, ci è stata tradotta come solo poteva essere reso da una magnifica ossessione. Dove il movimento ha assunto una sua “qualità” , plasmandosi sulle categorie di tempo, spazio, energia. Una nuova “lingua”, fatta di respiro, sospensione, presenza, carisma.

Inspiegabile l’immediatezza e la semplicità con la quale la Carlson entra in connessione con le persone, riuscendo a farsi seguire nel proprio universo e lasciando ogni volta un segno importante.

Grembo ospitante, dove le diverse creazioni entrano in dialogo, lo spazio iconico di Palazzo Bonaparte. Meraviglia barocca, dimora di Madama Letizia Ramolino Bonaparte, madre di Napoleone. Il Palazzo è conosciuto anche per il suo balcone a loggia, che affaccia su Piazza Venezia e Via del Corso. Luogo dove la mamma di Napoleone ha amato trascorrere gli ultimi anni di vita, con la sua dama di compagnia che le raccontava cosa accadeva fuori.

Vedere attraverso lo sguardo di un altro: esperienza che continua a ripetersi in questo magico palazzo. Come è avvenuto, in maniera indimenticabile, ieri sera.

Un momento unico, organizzato con il patrocinio dell’Ambasciata di Francia.

L’evento fa parte della rassegna “Dancing into Visual Art” ed è stato organizzato da Arthemisia con la Daniele Cipriani Entertainment.

Maggiori informazioni sulla mostra “Bill Viola – Icons of Light” a Palazzo Bonaparte