Gli amici di Peter

TEATRO VITTORIA, dal 5 al 15 Maggio 2022 –

“La verità non è facile da dire”.

Che cosa “ci accade” veramente? Che cosa vogliamo davvero?

Queste le domande sulle quali Stefano Messina, regista di una profonda e brillante commedia, sceglie di farci riflettere. Così come con elegante coerenza Alessandro Chiti, che ne cura la scenografia, riesce ad alludere con efficacia.

Ciò che ci appare chiaro e nitido in realtà non lo è. La verità, come sosteneva Arthur Schopenhauer, è ricoperta da un velo, difficile da attraversare. “Ci vuole arguzia” – sembra volerci suggerire il regista: ecco allora che in apertura dello spettacolo, a mo’ di prologo, la testa di un attore riesce ad individuare una feritoia e da lì sbuca, penetrando il velo del sipario. E così riusciranno a fare anche i suoi amici: acrobaticamente in verticale, sfruttandone morfologicamente l’opportunità.

Perché è con profonda leggerezza, complicità ed altruismo che possiamo riemergere da situazioni disperate, da “stagnaro ignaro”. C’è sempre un modo per “far benzina”, anche quando la macchina si arresta nel bosco: questo è il segreto nascosto nell’allegro e spensierato jungle da avanspettacolo che apre e chiude l’interessante adattamento proposto dal regista.

E dove i suoi attori, come “vecchi guitti”, sanno farsi coinvolgenti interpreti, calandosi nei diversi ruoli nei quali siamo chiamati “a giocare” ogni giorno. Tutti i giorni. Per tutta la vita.

L’uomo dal fiore in bocca

TEATRO ARGOT STUDIO, Dal 31 Marzo al 10 Aprile 2022 –

Sta in un cantuccio e ci guarda: è una donna dal vestito nero, stretta ad un fascio d’erba. Ci spia mentre prendiamo posto in sala. A tratti parla tra sé. E poi, ripensa. Il regista Francesco Zecca ha scelto di allestire la scena sotto al palco: uno spazio fisico e ultraterreno, rettangolare e insieme concentrico, per ricordare un uomo, ormeggiato con l’ancora di un lembo di terra. Sul fondo tre specchi rettangolari, chiusi a semicerchio, replicano e rivelano sotto diverse angolature, tutto ciò che li attraversa.

La donna dal vestito nero esce dal suo cantuccio, si guarda intorno, si cerca e non si trova negli specchi sovrastanti. Ma nonostante tutto con sacra eleganza entra, un piede alla volta, nel luogo dove poter osservare gli affanni delle nostra assurda e passeggera esistenza. Un luogo privilegiato, per essere ammessi a riflessioni di respiro profondo, partecipi di un intimo e vitalissimo ciclo, che sempre riattraversa il grembo fertile della terra.

Qui, il regista Zecca immagina di donare la parola a chi, nel testo originale di Luigi Pirandello del 1923, era stata tolta: la moglie. Lì il marito l’allontana dalla propria vita, dopo aver scoperto di essere malato, preferendo attraversare gli ultimi mesi nel desiderio di penetrare dentro la vita degli altri, perfetti sconosciuti, di cui osserva con pignoleria ogni particolare.

L’adattamento di Zecca si apre invece con la moglie in visita alla tomba del marito. Lei, al massimo della spinta simbiotica, si appropria dell’urgenza del marito di attaccarsi con l’immaginazione alla vita degli altri, pur non avendo come lui un responso di morte con una imminente data di scadenza. Crede che spiare la vita degli altri la faccia sentire più libera.

Ma cosa sta spiando davvero? La vita o la morte degli altri? O forse come la morte spii sempre la vita? Lei resta ipnotizzata dalle mani, dagli abbracci, dalle lacrime, dai modi di camminare degli altri. E quando si accendono le luci di platea, si attacca con l’immaginazione anche alle nostre vite di spettatori. La musica accompagna ed enfatizza il suo gusto per la vita, che però è destinato a fermarsi in gola (come suggellato dalle micro-pause musicali) e quindi a non soddisfarsi mai.

“Si può sentire sapore solo nelle cose del passato”- arriva a sostenere. E si aggrappa sempre alle stesse frasi, che prima di lei erano state l’àncora di suo marito. Lo si legge dai suoi occhi: mai davvero centrati sul presente (neanche quando spia gli altri) e men che meno sul futuro. Occhi, i suoi, che guardano indietro, come ripercorrendo un film, la cui scena madre è quella delle poltrone della sala d’attesa, “occupate” da lei e da suo marito, prima di conoscere il responso consegnato dal medico.

Noi, come quelle poltrone, con un destino d’attesa, di accoglienza e di aderenza temporanea. Altri vi si siederanno e crederanno come noi di “occuparle” davvero. Tutto scorre senza possibilità di controllo ma la cosa più insopportabile è che noi rischiamo di scorrere nell’indifferenza. “Perché -si chiede la donna dal vestito nero- mio marito non ha chiesto a me di raccogliere i fili d’erba? Perché lo ha chiesto proprio ad un “avventore”?

Forse perché un avventore per sua natura sa di essere “di passaggio”, sa che la sua è una presenza occasionale ma unica, sa muoversi nell’incontrollabile, nel mistero che avvolge la vita. Forse solo un avventore, proprio quello che beve un liquore di menta con la cannuccia, può essere coinvolto nel nostro destino.

E nel momento di massima disperazione, un pensiero potente come un incubo, sottrae la moglie alla mortifera forza di attrazione verso la terra: quello del gusto erotico delle albicocche. E scoprirà, forse, che il destino in cui tutti siamo avvolti è un destino di continui inizi.

Una struggentemente alienata Lucrezia Lante della Rovere arriva e lascia il segno.

Il regista Francesco Zecca e l’interprete Lucrezia Lante della Rovere hanno dimostrato la loro solidarietà alla questione ucraina con questo potente gesto.

Uscita d’emergenza

TEATRO MARCONI, Dal 10 al 13 Marzo 2022 –

Uno spettacolo sulle affinità geodinamiche tra un territorio e un modo di stare al mondo. Il lento abbassarsi e alzarsi del suolo accompagnato da scosse, trova il suo corrispettivo umano nel bradisismo emotivo di due stralunati individui. Ad una lentezza del fenomeno (percepita come tale solo nel tempo degli umani) viene applicato, con il guizzo registico caratteristico di Claudio Boccaccini, un ritmo recitativo geologicamente rapido ed incalzante. In alcuni casi, vertiginoso. Complici anche la scelta e l’efficace utilizzo degli effetti scenografici e musicali.

Due strani tipi si ritrovano a condividere lo stesso spazio vitale. Vengono da mondi molto diversi fra loro: quello della sacralità religiosa della chiesa e quello della sacra laicità del teatro. Pacebbene, è un ex sacrestano bigotto e quindi perseguitato da fantasie sessuali inaccettate. Cirillo, è un orgoglioso “souffleur” , un suggeritore teatrale, che saltuariamente ancora lavora e che non perde occasione per profanare le stantie citazioni sacre, ancora (apparentemente) così rassicuranti per Pacebbene.

Soli e abbandonati da tutti, si trovano a condividere quel che resiste di un “appartamento” e di uno stare al mondo di oscillante precarietà. In una condizione inaccettatamente incontrollabile, cosa ci può essere di più prezioso di un sacrestano (cioè di qualcuno che sceglie di fare il custode delle cose sacre) e di un “souffleur’, cioè qualcuno che costantemente è a nostro servizio per soffiarci nuova linfa e quindi suggerirci ciò che per natura tendiamo a dimenticare?

Inconsapevoli di essere loro stessi “gli splendori” di un’esistenza buia, si riducono a vivere rintanati nel loro buco di cemento. Consapevoli di venirne ricoperti ma con un desiderio incontenibile di voler essere trovati e (finalmente) scoperti, come sotto le macerie di Pompei.

Oscillando nell’attesa che questo accada, o all’opposto che una (improbabile) chiamata annunci loro la nuova “terra promessa”, non si accorgono di essere loro stessi le “colonne” che, non solo scenograficamente, vibrano ma resistono alle scosse della Terra e della Vita. Proprio perché in qualche modo capaci di assorbire e trasformare queste scosse in una lotta di abbracci, disperatamente solidali. Loro, collante per un’esistenza destinata a “crepare”.

Uno spettacolo in cui, grazie ad una lettura del testo particolarmente accurata, il regista Boccaccini attraverso il suo adattamento traduce e rintraccia la maniera di rendere al meglio anche il sottotitolo dell’interessante opera di Manlio Santanelli: “Beati i senza tetto perché vedranno il cielo”, originale parafrasi della sesta beatitudine evangelica. Perché al “tetto” delle ipocrite sicurezze solo alcuni hanno il coraggio di rinunciare. Uomini toccati dal cielo e da cui il cielo si è lasciato toccare. Questa, forse, è la vera umanità: quella beatitudine che ci è concesso cercare e forse trovare.

Efficace l’interpretazione dei due attori: un coinvolgente “flâneur” in pantofole Felice Della Corte nei panni di “Cirillo” e un polimorfico Roberto D’Alessandro nei panni di “Pacebbene”.

Per maggiori informazioni sullo spettacolo

Effetto serra

TEATRO VITTORIA, Dal 24 Febbraio al 6 Marzo 2022 –

Un tuono imperioso e profetico. Lo strepitio atmosferico trova riflesso nello strepitio emozionale di una coppia: come quando qualcosa folgora a causa di un’esplosione elettrica.

In un plumbeo soggiorno inglese, Sally e Thomas stanno prendendo un thè: lui, un “ingrugnito tricheco”, nella speranza che spiova; lei, un’ironica “donna dal cervello misterioso”, nel timore di un’esondazione. La loro casa è stata costruita proprio sulle sponde del fiume Severn, nella parte che piega a sud verso Birmingham.

Thomas, adora il fiume; anzi , la sua è una vera e propria dipendenza: non può fare a meno di vivergli vicino. Non solo, costruisce anche la sua attività commerciale sull’acqua: una disco-boat. “Brutto rischio le case sul fiume” – gli ripete sua moglie Sally – “te lo avevo detto! “. “Ormai – continua – neanche Dio vorrà più aiutarci, proprio come fece con i peccatori di Sodoma e Gomorra: Dio volse la testa dall’altra parte e punì la loro malvagità”.

La pioggia continua ad aumentare, quasi sintonizzata sullo scatenamento dei malumori e dei risentimenti della coppia. E prima del previsto arriva l’esondazione, come anche l’impianto scenografico evidenzia con suggestiva efficacia: il plumbeo soggiorno viene letteralmente schiacciato dall’impeto dell’esondazione del fiume e con un sorprendente colpo di scena ritroviamo la coppia in salvo dentro la loro barca a remi, nel fiume senza sponde. Nell’orizzonte senza sponde.

“Una crisi aggiusta sempre le prospettive” -proclama Sally- “ed è il momento in cui tutti si stringono gli uni con gli altri”. Anche con chi, purtroppo, non ce l’ha fatta: il corpo della bambina che incontrano sulle acque del fiume. Sally non riesce a non guardare l’inguardabile: “se non la guardiamo noi chi la guarderà, chi la piangerà, chi onorerà la sua morte!?”.

E così resistono per settimane Sally e Thomas, scoprendo affinità inesplorate: una viva complicità, una nuova intimità. E la bellezza del perdersi tra le stelle. Stelle, loro stessi, in un liquido cielo blu. 

Particolarmente degna di nota l’interpretazione dei due attori: una Viviana Toniolo (Sally) immensamente espressiva nella sua naturalezza e un Roberto Della Casa (Thomas) “trichecamente” adorabile e quindi credibile.

Uno spettacolo che sa affrontare un tema di scottante attualità con cruda dolcezza.

———–

Per maggiori informazioni sul regista Stefano Messina, clicca qui