Uno sguardo dal ponte

TEATRO ARGENTINA, dal 14 Marzo al 2 Aprile 2023 –

Cos’è, davvero, un uomo? 
Cosa possono le leggi del vivere civile nell’arginare l’essenza più “pura”, più autentica di un uomo?

È uno splendido adattamento shakespeariano quello realizzato da  Massimo Popolizio, interprete e regista di questo affascinante testo di Arthur Miller, che mette in luce quanto la natura umana possa rivelarsi insospettabilmente ambigua e contraddittoria: “una malerba soavemente delicata, di un profumo che dà gli spasimi “.  

Una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

L’attenta regia cinematografica scelta da Massimo Popolizio per “girare un film a teatro” sa dove e come seminare indizi: presagi ineluttabili, a specchio, che tengono sostenuto il tono della suspense. Eddie Carbone (il protagonista) riconoscerà, infatti, l’incendio della passione che lo abita, vedendolo “bruciare” negli altri; scoprirà che denunciare immigrati connazionali è una tentazione in cui anche lui può cadere ma soprattutto che ci si può ritrovare ad essere attratti irresistibilmente da ciò che non è “retto” , che sfugge ai canoni legali, che non è “regolare”.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone) e Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio


Non a caso la scena (curata da Marco Rossi) è quasi costantemente plumbea, chiusa su se stessa: solo il “Caos” che domina la vita riuscirà a forzare il suo ostinato immobilismo. Il fondale è di un grigio lattiginoso, confuso, che proiettori da terra rendono variamente inquietante, o ambiguamente misterioso, anche nei momenti meno tenebrosi. E poi c’è lui: il ponte di Brooklyn, reso attraverso tre diversi campi cinematografici: corto, medio e lungo. Quel ponte, in teoria collegamento solo verso il meglio, in pratica si rivela “sospensione esistenziale”: varco attraverso il quale la tragedia può entrare nella vita umana sorprendendoci inermi. E poi attraversarla, rompendo i “nostri” progetti, per costruirne altri. Apparentemente solo suoi.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone) e Michele Nani (Avv. Alfieri) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Uno non può sapere ciò che scoprirà“- ci ricorda l’avvocato Alfieri (un inconsapevole Iago, reso da un efficace Michele Nani), unico personaggio del presente a cui viene affidata la funzione, da coro greco, di narratore e commentatore esterno della vicenda, che l’arguta regia di Popolizio trasforma in un lungo flashback.

Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Inaspettate le caratterizzazioni delle due figure femminili: Beatrice ( la moglie di Eddie) e Catherine  (la figlioccia). Intraprendenti ed emancipate. Una scelta, questa del regista Popolizio, coraggiosa ma geniale.

Valentina Sperli (Beatrice Carbone) e Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Catherine, un po’ come una Lolita in bilico tra nostalgica fanciullezza e prorompente  femminilità, abbraccia lo zio a cavalcioni e condivide con lui le sue prime seduzioni di donna: il nuovo ammiccante colore di capelli rosso rame; la gonna corta e di un tessuto così generosamente disposto a tirarsi indietro da assecondare i suoi ancheggiamenti, ma soprattutto le nuove scarpe col tacco, che con un guizzo di femminilità, modificano la sua postura. È  portentosa Gaja Masciale: ancora un po’ goffa come sa esserlo una bambina e insieme abitata da quella irruente sensualità di giovane donna, posseduta dal ritmo pulsante della vita.

Una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

E poi Beatrice, la moglie di Eddie: una Valentina Sperli divina nel suo essere donna anche se di una femminilità diversa, propria dei suoi anni. Una donna che sa educare all’apertura, all’ebrezza della vita e che ha ancora fiuto e quindi annusa il pericolo di chi sta invadendo il suo territorio. Una donna che con classe graffiante reclama il marito e la loro intimità. Che sa parlare entrando in un vero rapporto dialettico con il suo uomo, il cui folle amore però “lo soffia il cielo”.

Valentina Sperli (Beatrice Carbone) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Massimo Popolizio è un Eddie Carbone densissimo e insieme trascinante. Immanente e trascendente. Un uomo che con “eleganza” ci trasmette la pesante imprevedibilità del vivere.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone)

E’ simpatico, spiritoso, ironico ma anche responsabile e ponderato. È sinceramente affettuoso: come uno zio può esserlo. Però scopre, e noi con lui, che è anche altro: qualcosa difficile da riconoscere ma soprattutto difficile da contenere. Una smania di “avere” ciò che la legge del vivere civile ordina che non si può avere. Una strana “inquietudine” che lo possiede come un corpo esterno: quella che lo Iago shakespeariano chiamava “il mostro dagli occhi verdi”: la gelosia. Qui anche vagamente incestuosa.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone)

E se non c’è modo di arginarla attraverso le leggi, non resta che tentare l’intentabile, il proibito: ciò che lui stesso, razionalmente, aveva definito deprecabile quando a farlo erano stati gli altri. Un incendio il suo, che lo possiede ineluttabilmente e propagandosi brucia anche gli altri. Ed è così vero Massimo Popolizio nell’interpretare questa umanissima difficoltà, che non riusciamo a non comprenderlo, schierandoci dalla sua parte. Come un vero personaggio shakespeariano.

Il cast dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” al completo

Fidati complici di scena sono tutti gli altri interpreti ancora non citati: Raffaele Esposito (Marco), Lorenzo Grilli (Rodolfo), Felice Montecorvino (Tony), Marco Mavaracchio (Agente), Gabriele Brunelli (Agente) e Marco Parià (Louis).

I costumi, curatissimi quanto efficaci, sono di Gianluca Sbicca.

Turandot

TEATRO LE SALETTE, dal 28 Febbraio al 5 Marzo 2023 –

Nella produzione di Carlo Gozzi, drammaturgo della Venezia del Settecento protagonista di una polemica sul teatro nella quale difendeva i vecchi artifici della Commedia dell’Arte contro le novità introdotte nel teatro da Goldoni, c’è anche una serie di pezzi drammatici basati sulle fiabe: inizialmente queste opere divennero popolari, ma dopo lo smembramento della Compagnia Sacchi caddero nel dimenticatoio. Furono molto apprezzate da Goethe, Schlegel, Madame de Staël e Sismondi. Uno di questi testi drammatici, Turandot, fu tradotto da Schiller in lingua tedesca e ispirò a Puccini l’opera omonima.

L’ambientazione di Turandot è esotica ed orientale, in risposta al gusto dell’epoca, a quella illuministica voglia di migrare verso posti lontani, di esplorare terre sconosciute di cui non si conoscono né usi, né costumi. Ma i personaggi secondari sono quelli tipici del teatro delle maschere.

E questa caratteristica è ben rispettata e resa nell’adattamento di Francesca e Natale Barreca e nella messa in scena registica di Stefano Maria Palmitessa.

Stefano Maria Palmitessa, regista dello spettacolo “Turandot”, al teatro Le Salette

Prendendo posto nella suggestiva sala del Teatro Le Salette, incastonato in quel fascinoso Vicolo del Campanile che collega la maestosa via della Conciliazione all’atmosfera raccolta di un inaspettato secondo cuore pulsante di Roma qual è il medioevale Borgo Pio, subito si nota una particolare modifica dello spazio teatrale, elemento centrale nella ricerca registica di Stefano Maria Palmitessa, per il quale risulta fondamentale iniziare lo spettatore ad un nuovo “sguardo”. Spesso solo suggerito ma proprio per questo più aperto ad un “oltre”.

Il boccascena in questo caso è delimitato, su due livelli, da quinte orizzontali che, come delle balaustre, riducono la visione degli attori fino a metà del loro busto. Chiara è l’allusione al Teatro dei Burattini, ricordo inconscio del regista, solito frequentare il celeberrimo Teatro dei Burattini di Villa Borghese.

Una scena al Teatro dei Burattini di Villa Borghese a Roma

Con la complicità di praticabili, gli attori lentamente si palesano suscitando la meraviglia di un’epifania e velocemente si eclissano scomparendo dietro le balaustre. Prime nel palesarsi sono le maschere della Commedia dell’Arte, alle quali è affidata la funzione di Coro: aprono la rappresentazione con un prologo introduttivo della vicenda narrata; chiudono con un epilogo ” …e al fin li magnam sti confetti” e frammezzano la narrazione con dei commenti.

L’intelaiatura narrativa ricorda le trame di quelle novelle orali che venivano raccontate in epoca pre-rinascimentale: vi è un eroe che deve conquistare il cuore di una principessa, bella ed impossibile, ma che nel farlo, incontra ostacoli maledettamente difficili da superare.

La storia, ormai nota a tutti, è quella di Turandot, principessa della Cina, tanto bella quanto gelida e spietata, vinta solo dalla forza dell’amore e del coraggio di un principe temerario e innamorato che, sostenuto dalla sua cultura e dalla sua passione, risolve i famosi inestricabili enigmi.

Una storia quella della tragica ‘bisbetica domata’ Turandot, già narrata dal francese Francois Pétis de la Croix in quel suo Les mille et un jours” (1710) con cui aveva inteso sfruttare il successo, recente e vivissimo, de “Le Mille et une nuits“.

Curatissimi esteticamente ed efficaci drammaturgicamente i costumi di Mary Fotia: bianchi per i personaggi della favola cinese, neri per le maschere della commedia dell’arte.

Di grande fascino il kesho (ovvero il trucco dell’attore nel kabuki) che prevede che i volti di onnagata (qui il personaggio di Turandot è infatti un uomo) e di ragazzi siano coperti solo di bianco, essendo il bianco il colore per eccellenza della bellezza femminile e della delicatezza della gioventù. Unica concessione, le labbra rosse, una pennellata di rosso agli angoli degli occhi e le sopracciglia disegnate più in alto del naturale (tsukuri mayu). 

Esempio di trucco kabuki per femmine e giovani

Sul volto dei personaggi maschili, invece, sono stese le linee che ne fissano l’espressione sotto la luce dei proiettori, rendendo evidenti i sentimenti che li animano: il blu per la calma; il rosso per la collera, il coraggio, l’ostinazione; il grigio per la tristezza; il viola e il nero per la paura o la malvagità; il porpora per la superbia.

Esempio di trucco kabuki per maschi

Il regista Palmitessa dà forma ad uno spettacolo elegante e pieno di suggestioni, dove si nota un interessante studio sulla parola e sulla sua musicalità; su quel che resta del corpo dell’attore e sulla possibilità di dilatarlo. Vivificando continuamente l’attenzione dello spettatore.

Fantasme

TEATROSOPHIA, dal 23 al 26 Febbraio 2023 –

In un suggestivo ambiente glaciale di stalattiti e stalagmiti (la scena è stata curata da Enzo Piscopo) si individuano, seppur mimetizzate, tre donne “freezzate”, congelate in un fermo immagine. Attendono la nostra attenzione. Una volta accordata, all’udir le prime note di un motivo musicale, come libere ora dal sortilegio dell’incantesimo che le voleva invisibili, si sciolgono. E si rianimano.

Una scena iniziale dello spettacolo “Fantasme” di Guido Lomoro

Sono fuori da ogni coordinata spazio-temporale e prima di sentirsi a loro agio nell’abitare questo nuovo ambiente, lo perimetrano tutto. Impavide. Sbilanciandosi anche oltre il confine che separa il palco dalla platea. Affamate di entrare finalmente nello sguardo degli altri. Si muovono come in una danza: ora lieve, ora densa. Sempre, carica di una potente espressività.

Maria Concetta Borgese

Sembrano dover recuperare qualcosa che hanno perso. Che è stato loro sottratto. Si guardano e s’intendono, senza parlarsi. Ormai complici, si muovono come in simbiosi: sono tre ma in un’unica entità. Una di loro inizia a chiamare il suo uomo: “Veturio ! ” e le altre due ne sostengono l’accoramento, dando forza alla sua esigenza di rivalsa. E ne ripetono il nome, come fosse un’eco. Come un coro di una tragedia greca.

Silvia Mazzotta e Marta Iacopini in una scena dello spettacolo “Fantasme”

Sono fantasme, spettri di persone defunte, che dallo stereotipato lenzuolo bianco non si lasciano più coprire. Piuttosto ne fanno una veste che le riveli. Non hanno negli occhi l’ira vendicatrice di Erinni: a loro interessa non essere invisibili, essere ricordate. Per far sì che ciò che è loro accaduto non si ripeti in un’assecondante e rassegnata normalità.

Marta Iacopini

Loro urgenza è dare vita a nuove occasioni per ricordare propositivamente il proprio valore di donne che hanno saputo amare. E amarsi. E far sì che “il danno” da loro subito trovi giustizia nell’essere da noi ascoltato e fatto valere con il nostro esempio. “Chiunque io sono, ricorderò chi sono stata !” – è il loro motto.

Ma è anche un’esortazione alla sorellanza: come patto sociale, etico ed emotivo. Consapevoli che insieme si è più forti. E che solo così è possibile avviare un vero e proprio cambiamento sociale. “Quanto poco si conoscono le donne !” – ripetono come in un loop le fantasme. 

Silvia Mazzotta

E si commuovono. E ci commuovono. Dopo averle seguite attraversando con loro le regioni dell’anima della passionalità, della generosità, della frustrazione, del disgusto, della rabbia, della dimenticanza fino alla prepotente esigenza di una rivalsa, facciamo tappa nella regione della solidarietà. Riconoscendoci in tutta la nostra maestosa fragilità di creature che sanno commuoversi. Insieme. Per poter dar vita a nuovi inizi.

Silvia Mazzotta, Marta Iacopini e Maria Concetta Borgese in una scena finale dello spettacolo “Fantasme” di Guido Lomoro

Molto interessante la scelta del regista Guido Lomoro, la cui cifra stilistica si esprime costantemente in un’attenta e appassionata indagine della natura umana, di proporre una riduzione teatrale dell’avvincente testo di Claudio Marrucci e Carmela ParissiFantasme. Da Messalina a Giorgiana Masi“, focalizzando l’attenzione registica su una rosa di 9 esempi femminili (rispetto ai 25 del testo originale) che continuano a parlarci e ad illuminare le nostre esistenze.

Guido Lomoro, il regista dello spettacolo “Fantasme”

Soprattutto grazie alla generosa accoglienza e “visibilità” riservata loro dalle tre appassionate interpreti sulla scena: Maria Concetta Borgese, Marta Iacopini e Silvia Mazzotta. Impetuose e piene di grazia. Capaci di restituire vibrante esistenza a creature troppo spesso avvolte nel ghiaccio della dimenticanza.